Ancora loro. I Golden State Warriors sono di nuovo
campioni NBA. E’ la 4ª volta dal 2015, la quarta per coach Kerr, Draymond Green, Klay Thompson e Andre Iguodala. La quarta per Steph
Curry, finalmente e meritatamente mvp delle Finals. Questo titolo però la
squadra della Baia se l’è dovuto conquistare, come la prima volta esattamente 7
anni fa. E’ risalita dall’inferno di un 2019-20 con appena 15 vittorie, dai
dubbi sul recupero di Klay Thompson, rimasto fermo per due anni e mezzo, sulla
tenuta di un gruppo costruito sui veterani di sempre e su tanti giovani. A
tenerlo insieme però c’era la cultura Warriors, quello di una dinastia che
capito come si vince è tornata a brillare. Golden State se l’è sudato questo
titolo, lottando contro Boston che voleva scrivere la sua storia di riscatto.
Ma gara 6 delle Finals ha detto che i Warriors sono più forti, che il Larry
O’Brien Trophy appartiene ancora a loro. I Celtics si inchinano. E Golden State
è di nuovo campione.
Questo è davvero un titolo di sistema. Steve Kerr ha ricordato spesso in queste
Finals che la rotazione completa Golden State l’ha avuta solo nei playoff, che
Curry, Thompson e Green sono tornati a giocare insieme tutti sani solo dal
primo turno contro Denver. Quello dei Warriors è stato un crescendo fino
all’apoteosi di gara 6 al TD Garden: abbracciando il Larry O’Brien Trophy,
consegnato dal vice Commissioner Mark Tatum perché Adam Silver è stato fermato
dal Covid, Golden State è diventata la seconda squadra di sempre a festeggiare
il titolo da avversaria sul parquet dei Celtics. Un titolo meritato, un titolo
che mostra come in NBA sia la forza del gruppo (Strength in Numbers, il motto
delle 5 Finals di fila, è tornato di moda) a fare la differenza, la continuità
e la progettazione anziché la scorciatoia dell’ammassare star. Golden State ha
costruito questo anello sui pilastri di sempre, Curry, Thompson e Green, quelli
che sono cresciuti insieme fino a diventare il trio più vincente alle Finals
degli ultimi 50 anni; sulla programmazione di far crescere Jordan Poole, solo un anno e mezzo fa in G-League con l’amico Nico
Mannion; sull’intuizione di rigenerare Andrew
Wiggins, che a Minnesota sembrava perso per il grande palcoscenico e che a
Golden State, con le luci sui riflettori puntate su altri, ha dimostrato di
poter essere decisivo. Questo titolo per i Warriors è particolare: unisce il
passato e il presente al futuro, un nuovo trionfo per i campioni di sempre e
per quelle che potrebbero essere le stelle di domani. E’ il titolo di Steve
Kerr, il nono della sua lunghissima avventura in NBA, prima da giocatore (5) e
ora da allenatore (4): ha confermato di essere una di quelle “beautiful minds”
che rendono grande chi sta loro attorno.
A Boston resta l’amaro in bocca, ma questa è per tanti motivi una stagione
della svolta per i Celtics. Non è un caso che i fan del TD Garden, digerita la
sconfitta, guardino con ottimismo al futuro. Questa squadra a gennaio sembrava
perduta, con radio mercato che parlava di incompatibilità tra le stelle Jayson Tatum e Jaylen Brown. Hanno cambiato marcia arrivando fino a gara-6 delle
Finals, a due vittorie dal titolo. E hanno tanto per essere la squadra del
futuro, a cominciare da due stelle sotto i 25 anni con ancora tanto margine per
migliorare. Come i Warriors, i Celtics sono una squadra costruita su Draft e
programmazione, che dopo i passi da gigante fatti nella seconda parte di
stagione deve lavorare per capire come rimanere protagonista, come restare in
alto. Boston ha perso le Finals perché ha lentamente finito la benzina: mentre
i Warriors sono andati in crescendo, trascinati all’inizio da Curry e poi dalla
forza del gruppo, i Celtics sono andati in calando. Gara 6 doveva essere quella
in cui con le spalle al muro spaccavano il mondo, giocavano in quel modo
sublime che li aveva portati avanti 2-1. Ci sono riusciti per i primi 4’, poi
si sono arresi alla realtà di una sconfitta diventata inevitabile. Ma hanno
tutto per riprovarci, anche se resta quella sensazione amara di “what if”, perchè è anche vero che non è sempre possibile fare i "bambini coi baffi". Gente come Pritchard, White e i due Williams saranno capaci di ripetere una stagione del genere? Lo scopriremo solo vivendo, avrebbe detto qualcuno.
La partenza perfetta Celtics, 14-2 dopo 4’, illude il TD Garden. Golden State
rientra con pazienza e la forza del gruppo ed è avanti 27-22 a fine primo
quarto, ma nel secondo mette il turbo, spinta prima da Poole e poi da Curry,
Thompson e la straordinaria difesa di Green fino al +21, 54-33 a 2’
dall’intervallo. Boston segna gli ultimi 6 punti del primo tempo per provare a
tenerla viva, trova uno strepitoso Horford nel terzo quarto (12 punti e 6
rimbalzi) per cominciare i 12’ conclusivi sotto 76-66 dopo essere stata a -22.
Ma Golden State trova Curry, irresistibile (34 punti) come lo è stato per tutta
la serie, e scappa di nuovo. Verso il titolo, verso quel trono della NBA che
adesso le appartiene di nuovo.
Boston Celtics – Golden
State Warriors 90-103 (2-4)
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