giovedì 26 marzo 2020

Episode One: The Odom Odissey


“Come potrò dire a mia madre che ho paura?”
Il cantico dei drogati è senza dubbio una delle più belle e, al contempo, delle più struggenti e dolorose canzoni tra quelle scritte da Fabrizio De Andrè nella sua lunga e meravigliosa carriera di cantautore.
Il brano è tratto dall’album “Tutti morimmo a stento”, un album nel quale la morte è il tema fondamentale e centrale.
Come sembra esserlo nella vita di un ragazzo nato da qualche parte nel Queens, enorme sobborgo new yorkese situato ad Ovest di Long Island.
Una vita piena di vittorie e sconfitte, di gloria e solitudine, di morti e di rinascite, di successo e di miseria.
Quella che vi proviamo a raccontare non è una storia facile, perché niente, nella vita di Lamar Joseph Odom, è stato facile.

“Hey Bob, lascia stare che si chiami Odom, quello è un Mercer e ti dirò di più, è destinato a diventare più forte di Mique”.
Il Bob in questione è Bob Oliva, head coach di Christ The King, la più importante high school di New York.
“Mique” altra non è che Chamique Shaunta Holdsclaw, che a Christ The King, parte “women”, vincerà un titolo e verrà nominata giocatrice dell’anno nel 1995, per poi diventare una leggenda del basket femminile.
“Mercer” è il cognome di sua madre, che nel Luglio del 1991 l’ha messo di fronte al primo difensore arcigno della sua vita, perché mamma Cathy, causa cancro al colon, passa a miglior vita.
“Be nice to everybody”, e tanti saluti.
Si, perché lei non c’è più, ma non c’è neanche suo padre, di cui l’unica cosa rimasta che non si fosse dissolta nell’alcool è il cognome, Odom.
Cresce con sua nonna, Milred Mercer (leggenda narra che si sia iscritta all’Università a 44 anni!!), quando Oliva lo vede la prima volta arriva a stento a 185 cm, poi cresce e il coach (che tanti anni dopo dovrà difendersi da un’infamante accusa di abusi sessuali) gongola.
Al primo colpo è titolo, in finale ne mette 36 giocando in tutti e 5 i ruoli, prodigioso.
A scuola, però, andiamo così così, spuntano tanti “amici” che non sapeva di avere, gestisce la nonna che chiama tale Jerry De Gregorio, che è appena diventato assistente di Jim Harrick a Rhode Island. Ha la fama (non solo) di essere molto duro.
E’ un “Born Again Christian”, accoglie il diciottenne Lamar che per 6 mesi vivrà a casa sua: sveglia alle 6 e a letto alle 23, preghiere e tiri liberi.
Lui è discontinuo fuori dal campo, ma intanto è arrivato a 208 cm e in campo, pur conservando uno stile sobrio, domina senza remore, perché gioca almeno 3 ruoli, tratta la palla come se ce l’avesse in mano da sempre, schiacciate, post basso, passaggi “no look”.
Anche De Gregorio, che gli aveva risposto “no” alla domanda “secondo te sono pronto per l’NBA?”, deve arrendersi all’evidenza, le porte del professionismo si spalancano, i Los Angeles Clippers, detentori della 4° pick assoluta al Draft del 1999, non se lo lasciano sfuggire.
Quattro stagioni ai Clippers (230 partite, 15.3 punti, 7.1 rimbalzi, 4.8 assist e 1.2 stoppate di media), nell’estate del 2003 firma ai Miami Heat dove gioca, probabilmente, la sua miglior stagione a livello di rendimento personale (tra Regular Season e i primi Play Off della sua vita viaggia a oltre 17 punti, 9 rimbalzi e 3 assist di media).
Sente di avercela fatta, sente di poter diventare un perno di quella squadra che sta costruendo le fondamenta per arrivare al titolo (che vincerà nel 2006), ma arriva la doccia fredda.
Quella che apre Pat Riley, quando gli dice che è un ottimo giocatore, che viene dalla migliore stagione della sua carriera, che la squadra, la franchigia, tutta Miami lo stimano, lo amano e lo ringraziano, ma dall’altra parte degli States vogliono cedere Shaquille O’Neal perché con quel Kobe proprio non riesce ad andare d’accordo, e quindi può prendere le sue cose e salire sul primo aereo per Los Angeles, portando con sè anche Caron Butler e Brian Grant.
E’ un trauma, senza mezzi termini, che si aggiunge a quello del Giugno del 2003, perché la cupa mietitrice ha bussato nuovamente alla sua porta, portando con sé l’adorata nonna Milred.
Ci sono le Olimpiadi Atene, dove fa parte dei 12 che dovrebbero passeggiare allegramente al torneo di basket, invece sarà solo medaglia di bronzo.
Si torna a Los Angeles, sponda Lakers, inizio balbettante e poco convincente, fin quando, sulla panchina giallo/viola, non arriva lui, Phil Jackson.
Lamar (che di li a poco diventerà “Lamarvelous”) ritrova un mentore, ritrova una casa, ritrova finalmente una dimensione.
Il primo anno di Odom sotto la guida di “Coach Zen” è qualcosa di strabiliante: i numeri, che sono comunque d’impatto, sono niente rispetto a quello che fa sul parquet. Un’ala grande che può giocare da centro, cambiare sulle ali piccole, tirare come una guardia e portare palla come un playmaker. It’s time for a new basketball revolution.
Tutto sembra apparecchiato per la rivoluzione, se non fosse che un’altra morte anticipa tutti e vola in contropiede.
Il 29 Giugno 2006 il suo terzogenito, Jayden, di appena 7 mesi (avuto dall’allora compagna Liza Morales), muore improvvisamente nel sonno. Si tratta di SIDS (Sudden Infant Death Syndrome), sindrome della morte improvvisa del lattante, un fenomeno ancora sconosciuto a tutta la comunità medica e scientifica, assolutamente inspiegabile: semplicemente un bambino, nel primo anno di vita, apparentemente e medicalmente sano sotto ogni punto di vista, muore, da un giorno all’altro, senza una evidente e riscontrabile motivazione.
Il pensiero di mollare tutto è ben radicato nei suoi pensieri.
Ma si rialza, ancora una volta, aiutato da tutti, i Lakers stanno costruendo la squadra per tornare a vincere, e lui è quanto di più vicino si possa avere alla definizione “ago della bilancia”.
E’ straordinario, il perfetto collante, perdono nel 2008 ma vincono nel 2009 e nel 2010 (anno nel quale si laurea anche campione del mondo con Usa Team), e lui, nel 2011, viene finalmente nominato “Sixth Man of The Year”.
A Los Angeles lo amano, il cerchio sembra essersi chiuso. Ma in un attimo la storia si ripete e fredda, crudele, definitiva torna di nuovo lei, la morte.
E’ il luglio del 2011 e Lamar sta ormai ultimando i preparativi per la partenza, con destinazione New York, in vista di un lancio commerciale concordato con la Nike qualche mese prima. Poi arriva una chiamata. Una chiamata che cambia tutto, non cambiando niente. Perché quando mette via il telefono, la destinazione non è mutata, è sempre la stessa. Ciò che è cambiato è lo stato d’animo con cui affrontare il lungo viaggio: non più quello annoiato di chi sta andando ad uno di quegli incontri di routine tanto monotoni quanto incredibilmente arricchenti, ma quello mesto e malinconico di chi, con un vestito nero in valigia, deve recarsi al funerale di un ragazzo assassinato con un colpo di pistola all’età di 24 anni. Un cugino nell’albero genealogico, un fratello nella vita.
“La morte sembra essere sempre intorno a me. Ho seppellito persone per moltissimo tempo. Quando è stato il turno di mio figlio, probabilmente non ho smesso di piangere prima di un anno e mezzo. Penso che gli effetti di vedere mio cugino morto mi abbiano abbattuto. Mi sento così debole”.
Come dargli torto, e come se non bastasse, mentre riesce a stento a mangiare, i Lakers decidono di cederlo.
Andrà ai Dallas Mavericks, ma la fine della sua carriera ha davvero poca importanza, perché da quel momento è tutto un vortice.
L’eroina (che nel 2015 uccide suo padre e il suo migliore amico), il crack (ne è ormai dipendente), la cocaina, quella che consuma in un mix letale con viagra e superalcoolici il 14 Ottobre 2015, quando viene trovato in stato di incoscienza in un bordello di Crystal (Nevada).
Sarà in coma per tre giorni, ma avrà la forza di raccontare la sua storia sulle pagine di The Player’s Tribune.
Accetta la riabilitazione, ma nel 2017 ci ricasca perché viene ritrovato, privo di sensi, in un night club, coma etilico.
E’ un uomo rimasto solo, in una spirale fuori controllo dedita all’autodistruzione.
Ma la tanto amata pallacanestro torna ad avere un ruolo nella sua vita: nel Febbraio del 2019 annuncia di aver firmato per la Big 3 (lega di 3 vs 3 creata dal rapper Ice Cube due anni prima).
Torna a sorridere, torna a far parlare di sé per cose positive.
Ma dura poco, perchè l’ultimo, devastante, semi gancio appoggiato al vetro della morte non tarda ad arrivare.
Lo scorso 26 Gennaio un tragico incidente uccide Kobe Bryant, il suo “ying” ai tempi di Los Angeles.
“Quando sono finito in coma, se dio fosse venuto da me e mi avesse detto che avrebbe preso me al posto di Kobe, avrei preferito così.”
Puntuale, precisa, tremenda, ancora una volta.
“Come potrò dire a mia madre che ho paura?”

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