venerdì 27 marzo 2020

Episode Two: ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi!



“It’s better to burn out than to fade away”.
E’ meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente.
Kurt Cobain, cantante dei Nirvana, nella sua lettera scritta prima di suicidarsi, cita un verso di una canzone di Neil Young, che si intitola “My My, Hey Hey”.
Quel verso riassume alla perfezione la sua vita, ma anche l’esistenza del protagonista del nostro secondo episodio, la perfetta reincarnazione dell’anima tormentata di Seattle, teatro della nostra storia e di quei magnifici anni ’90 che abbiamo vissuto, soprattutto in NBA.
Quel ragazzo, e il suo impatto nel mondo dei Supersonics e nella più importante lega cestistica americana, non ha quasi eguali.
Luce accecante e vertiginosa fragilità.
Bruciando velocemente la luce sprigionata è folgorante.
Dura poco, ma che spettacolo!!
Perché questa è la storia di Shawn Travis Kemp.

Nasce il 26 Novembre 1969 ad Elkhart, nell’Indiana, una delle roccaforti dell’intolleranza razziale, dove crescere, per un afroamericano, non è affatto facile.
Mamma Barbara, che divorzia dal marito quando il piccolo Shawn frequenta l’asilo, deve pensare a tutto lei per tenere in piedi la famiglia.
Sembra il classico film americano, anche perché nel giardino di casa, sopra il garage, c’è appeso il canestro, dove Shawn, che ha un solo pensiero nella testa, ovvero il basket, affronta il primo avversario della sua vita, sua sorella Lisa, che è più grande di lui e lo maltratta, stimolandolo a fare meglio (Lisa Kemp diventerà un’ottima giocatrice a livello di High School e College).
Le cose cambieranno, anche perché il “piccolo” Shawn non è più così piccolo, visto che a 12 anni è già alto 185 cm.
La passione è smisurata, passa tutto il suo tempo libero al campetto della città, abusando a piacimento degli avversari che però non si arrabbiano, anche perché dà già sfoggio del giocatore spettacolare che diventerà negli anni a seguire.
Faceva alcune cose incredibili. Poteva fare qualunque cosa su un campo da gioco”, affermeranno alcuni di quei ragazzi, come quando, leggenda racconta, schiacciò così forte sulla retina metallica del canestro da generare una tempesta di scintille.
Energia allo stato puro.
Nel 1984 si iscrive alla Concord High School di Elkhart, e ci mette poco a diventare la star locale, vista la sua straordinaria capacità di infrangere qualsiasi record di punti della sua scuola (2.134 punti segnati in 4 anni, tutt’ora primo realizzatore ogni epoca della scuola).
L’anno più importante alla Concord è senza dubbio il 1988 (anche se, probabilmente, preferisce il 1987, quando brutalizza Stuart Gray, centro degli Indiana Pacers, quindi un professionista, in visita alla scuola, che lo sfida in 1 vs 1 e si prende in faccia una schiacciata “poster” che alimenterà racconti e leggende per una decina d’anni in quei corridoi): guida la squadra alle finali del campionato statale, meritandosi l’invito al prestigioso McDonald’s All American High School Tournament, assieme a tutti i migliori giocatori di high school della nazione (quel giorno gioca in coppia con un certo Alonzo Mourning, pensate che duo), dove segnerà 18 punti.
E’ il momento di scegliere dove andare al college: ovviamente la favorita è Indiana University, si fanno avanti anche Notre Dame e Purdue, tutte rispedite al mittente con un laconico “No thanks”.
Ha già firmato una lettera di intenti con i Kentucky Wildcats di Eddie Sutton, uno dei più grandi coach di sempre a livello collegiale, ma fallisce il test attitudinale scolastico (SAT) necessario a giocare in NCAA e sarebbe dunque costretto a saltare l’anno da freshman. Nonostante ciò Shawn decide, un po’ a sorpresa, di restare a Lexington e frequentare l’università. Quanto può durare uno del genere al college senza poter giocare a basket? Tre, dicasi tre, settimane. Il tempo di farsi cacciare per aver rubato un paio di catene d’oro al figlio dell’allenatore ed averle impegnate in cambio di qualche spicciolo per comprarsi, probabilmente, un po’ di marijuana.
Nonostante il coach, che intanto lascia i Wildcats, non sporga denuncia, la NCAA lo squalifica per due anni.
Decide di iscriversi al Trinity Valley Community College, università che può tranquillamente non frequentare per corrispondenza. Non gioca una partita, si allena soltanto, tanto basta, parole di Guy Furr, assistant coach di Trinity Valley, “a portare tutti quanti ad un livello più alto”.
I suoi compagni lo convincono ad iscriversi ad uno “Slam Dunk Contest” organizzato dai Dallas Mavericks: il vincitore avrà, come premio, tre giorni di allenamento con la franchigia del Texas.
Ovviamente vince quella gara in scioltezza, ma coi Mavs durerà un solo giorno, visto che lo allontanano, sgarbo che non dimenticherà.
Nella sua testa ha già deciso di rendersi eleggibile al Draft saltando il college e, nonostante tanti pareri contrastanti, in primis quelli della mamma, il 27 Giugno 1989 è a New York, e a sceglierlo sono i Seattle Supersonics, alla 17° pick assoluta, ed è inutile dire che sarà l’assoluta “Steal of the Draft”.
La prima stagione Kemp la trascorre sotto l’ala protettiva di Xavier McDaniel, (colui che al college si tagliò sopracciglia e capelli a zero per apparire più truce ai suoi avversari), crescendo partita dopo partita e segnalandosi soprattutto per le straordinarie capacità atletiche.
“X-Man” (così viene chiamato McDaniel) è quel fratello che non ha mai avuto, lo consiglia su tutto, su come allenarsi e, soprattutto, su come deve comportarsi fuori dal campo.
L’estate del 1990 è quella della prima svolta: va via coach Bickerstaff, sostituito da K.C. Jones, tramite trade arrivano Eddie Johnson e Ricky Pierce, Nate McMillian è sempre più leader e, soprattutto, a quel Draft, i Sonics pescano, from Oregon State University, tale Gary Payton.
La squadra prende forma e comincia a girare, ma manca qualcosa, e quel qualcosa arriverà nel Gennaio del 1992.
Jones non ha alcuna presa sulla squadra, al suo posto la dirigenza sceglie George Karl, che è perfetto per il contesto, perché ama la pallacanestro offensiva e i ritmi alti, oltre a lasciare totale libertà d’espressione ai giocatori.
E poi è uno di quei personaggi fuori dal normale: l’anello col quale chiede all’allora fidanzata di sposarlo lo fa recapitare a casa della ex moglie…è perfetto!
E’ la seconda svolta. La coppia Kemp-Payton può finalmente esprimersi al massimo del suo potenziale, diventando una micidiale macchina da high lights.
Payton è un passatore sensazionale, oltre ad essere un ottimo difensore (da qui il soprannome “The Glove”, Il Guanto), e con Kemp si completa alla perfezione, col numero 40 che si esibisce in schiacciate fuori dal normale per energia e fisicità, che gli valgono il nominativo di “The Reign Man”.
La squadra, che ha anche un’ottima base difensiva, arriva fino alle semifinali di Conference.
L’anno dopo conferma tutto l’enorme potenziale dei Sonics, oltre a confermarci il rapporto di totale libertà con coach Karl.
Durante una partita, in un contropiede, Payton scaglia la palla verso il tabellone per consentire a Kemp di schiacciare al volo, il passaggio è troppo forte e genera una palla persa.
Karl si arrabbia e li richiama in panchina per punizione: Payton guarda Kemp facendogli capire che, se ricapita, lo rifaranno. Ovviamente ricapita, e stavolta la giocata riesce, il pubblico impazzisce, i due “malandri” passano dalle parti di Karl che sorride e scambia con entrambi un high five.
Per Kemp è tempo anche di prima convocazione all’All Star Game.
La squadra fa un passo avanti, perché ai Play Off arriverà fino alla Final Conference, perdendo solo a gara 7 contro i Phoenix Suns di Charles Barkley.
Il seme è piantato, la società si muove bene in estate (arrivano Schrempf e Kendall Gill), e in quella Regular Season 1993/1994 i Sonics giocano alla grande, facendo registrare il miglior record della Lega (63-19), ma ai Play Off, quando tutto sembra apparecchiato per il finale che tutti si aspettano, arriva l’inaspettata eliminazione al primo turno, per mano dei Denver Nuggets, che vincono la decisiva gara 5 all’allora Key Arena, Dikembe Mutombo è a terra, steso, esausto, col pallone ben stretto tra le mani. E’ la diapositiva di quella post season.
Stessa sorte l’anno successivo, quando saranno i Lakers ad eliminare i Sonics, sempre al primo turno.
Iniziano a sentirsi voci fastidiose, di spogliatoio spaccato, l’estate del 1995 vede Shawn perdere 13 kg, un percorso fisico e spirituale che lo porta alla consapevolezza di sé.
Non giocare più per gli altri, ma per realizzare unicamente i propri sogni.
Per i Sonics la stagione 1995/1996 è l’apogeo massimo sotto la guida di Karl. Gary Payton è eletto miglior difensore dell’anno, e sarà l’ultima guardia a riuscirci, e finisce insieme a Kemp nel secondo quintetto All-NBA e titolari nell’All Star Game. Al primo turno dei playoff fanno fuori i Kings di Richmond e dell’ex Marciunolis con un secco 3-1, poi si prendono la rivincita con i Rockets battendoli 4-0 con un Kemp stellare contro Olajuwon, e in finale di conference sconfiggono gli Utah Jazz dello “Stockton to Malone” per 4-3.
Il problema è che gli avversari, alle Finals, sono i Chicago Bulls, quelli delle 72 vittorie, quelli di Michael Jordan, che vanno subito 3-0.
Sembra finita, ma l’orgoglio dei ragazzi di Seattle non ha eguali, arrivano due vittorie (la gara 5 di Kemp è forse una delle migliori partite giocate dal “Regnante” con i Sonics, 22 punti, 10 rimbalzi e 5 stoppate, dominio totale sui due lati del campo), ma in gara 6 “His Airness” riprende il controllo delle operazioni e chiude i giochi per il definitivo 4-2.
All’alba della stagione 1996/1997 il nativo di Elkhart manifesta tutto il suo malcontento per la situazione contrattuale in cui si trova.
I Sonics decidono di prendere un centro classico, il carneade Jim McIlvaine, che firma un contratto di 7 anni da oltre 33 milioni, tantissimi soldi.
Kemp sbotta e chiede di essere ceduto, il suo apporto non manca, la squadra uscirà in semifinale di Conference per mano dei Rockets, ma l’avventura a Seattle è finita, perché viene ceduto ai Cleveland Cavaliers, l’inizio del declino.
La sua prima stagione è buona, ma la sua vita privata esplode completamente. All’inizio del 1998 è padre di 7 figli da 7 donne diverse, più altri figli non riconosciuti sparsi per gli States, provocando numerose prese in giro da parte di rivali e addetti ai lavori. Si presenta al training camp post lockout del 1998 in sovrappeso di 20 kg e con problemi di droga ed alcool messi a tacere immediatamente dalla franchigia dell’Ohio.
Il crollo definitivo del Reign Man avviene la stagione successiva, quando approda nei “Jail” Blazers di Rasheed Wallace, e la sua prima stagione termina anticipatamente per il ricovero in rehab a causa degli abusi di marijuana e cocaina.
Nel 2003 la sua ultima reincarnazione, questa volta ai Magic che lo firmano per far fronte ai gravissimi infortuni di Grant Hill. Dopodichè l’abisso.
Tenta più volte di tornare in NBA, Avery Johnson prova a portarlo ai Mavericks ma poi ci ripensa a causa della sua instabilità fisica e mentale. Nel 2005 viene arrestato a Dallas per possesso illegale di arma da fuoco e durante la perquisizione gli vengono trovati addosso 60 grammi di marijuana e alcuni grammi di cocaina. L’anno dopo viene ancora arrestato per possesso di droga a Houston. Nel 2008, a 39 anni e a 5 anni dalla sua ultima partita ufficiale, firma per Montegranaro ma viene tagliato ancor prima dell’inizio della stagione a causa di problemi fisici e continui ritardi.
La carriera di uno dei più grandi atleti che l’NBA ha mai avuto si conclude qui, torna a Seattle, ormai la sua città, dove vive la sua vita senza pressioni.
E quando torna a Seattle trova quel cielo verde smeraldo, splendida combinazione di colori dettata dalla pioggia, perché a Seattle piove sempre.
Piove come in Blade Runner…piove come ne Il Corvo, il film culto di Brandon Lee, che al Lake View Cemetery di Seattle riposa, assieme a suo padre Bruce.
Breve ma intenso Shawn, come un temporale improvviso.
Perchè tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia, citando le ultime parole di Roy Batty.
La pioggia, la pallacanestro, il tritolo, col quale ha fatto saltare in aria ferri e canestri, la leggenda di “The Reign Man” non ci abbandonerà mai, nonostante tutto.


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