mercoledì 8 aprile 2020

Episode Fourteen: Can I fly with You?


Come può uno scoglio arginare il mare?
Come può un essere umano, che a stento arriva a 191 cm, volare letteralmente sopra ogni cosa si frapponga fra lui e il suo obiettivo?
Il protagonista del nostro quattordicesimo episodio potrebbe, volendo, sedersi sul ferro, leggere il giornale e guardare noi che ancora ci stiamo chiedendo come abbia fatto ad arrivare fin lassù.
In rapporto al fisico un atleta così, forse, non si è mai visto.
Talentuoso ed elettrizzante.
Perso…dentro sé stesso.
Lui si chiama Steven D'Shawn Francis.

Nato il 21 Febbraio 1977 (è decisamente l’anno delle nostre storie) a Takoma Park, città situata a 12 km da Washington, Steve, terzo di quattro figli, deve tutto a sua madre Brenda, un’autentica madre coraggio.
Suo padre, alcoolizzato ed eroinomane, lascia la famiglia nel 1983, costringendola a lavorare come una pazza per provvedere ai figli.
Nonostante le gravi difficoltà economiche, il piccolo Steve cresce seguendo importanti valori, e sogna di diventare un giocatore di football.
Appena compiuti 10 anni inizia a fare piccoli lavori durante le vacanze estive per aiutare sua madre, intenta a raccogliere i pezzi della sua vita.
Ha già un senso di responsabilità notevole e grande rispetto per il valore della famiglia.
Crescere a Takoma Park, soprattutto per un afroamericano, non è facile, perché il rischio di finire in una gang criminale è sempre dietro l’angolo.
Lui, che intanto si innamora del basket, mantiene un profilo basso, frequentando costantemente il playground del quartiere, dove conosce una delle persone più importanti della sua vita, Anthony Langley, che diventerà il suo mentore.
Langley, che è un allenatore, rimane impressionato dalle movenze di Steve (“ho visto subito che il ragazzo era intelligente, competitivo e determinato a vincere”), che non ha neanche le scarpe adatte a giocare a basket (“non avevo le scarpe da ginnastica a quel tempo, così ero al campetto che mi divertivo e i ragazzi ridevano del fatto che non avessi le scarpe giuste”), quindi lo accompagna al più vicino Foot Locker e gli regala un paio di sneakers nuove.
Inizia a giocare ogni giorno dopo la scuola, sviluppando quello che sarà il suo stile negli anni a venire, il basket lo tiene seriamente lontano dai guai.
Sempre durante quegli interminabili pomeriggi passati al campetto, Steve conosce la seconda persona determinante della sua vita, Nathan Peake, noto da quelle parti per essere uno scopritore di talenti. Diventerà il suo manager.
Il nome di Francis inizia a circolare dalle parti di Washington, si guadagna il primo nickname della sua vita, “The Wink” (la strizzata d’occhio), perché abbina aggressività e ubriacanti crossover ai (all’epoca) 165 cm d’altezza.
Si iscrive alla Montgomery Blair High School, e contemporaneamente inizia a frequentare un gruppo di ragazzi poco raccomandabili. Durante il suo primo anno (1991/1992), la sua vita extrascolastica fatta di fumo, alcool e cazzeggio gli crea non pochi problemi.
A scuola va malissimo, salta lezioni e allenamenti, viene classificato come non idoneo e cacciato.
Si trasferisce alla Kennedy High School e, in poco tempo, conoscerà il periodo più duro della sua vita: durante la pre season si rompe una caviglia compromettendo l’intera stagione, e sua madre si ammala di cancro. E’ la scintilla che accende il lui la voglia di rimboccarsi le maniche, a scuola e in campo: nel 1994/1995 torna a Montgomery e mette in pratica gli insegnamenti della mamma (che intanto si aggrava), si impegna a scuola, aiuta la nonna e diventa un punto di riferimento per la sorellina di soli 4 anni.
Ogni pomeriggio gioca a basket, non importa dove, perché è l’unica cosa che lo fa stare in armonia col mondo.
Un pomeriggio del Marzo del 1995 il suo cercapersone interrompe la sua classica partita: corre a casa senza nemmeno guardare chi sia, perché già sa cosa è accaduto.
Sua madre Brenda, quella donna forte e tenace, se n’è andata a soli 39 anni, ha perso la sua battaglia contro quel maledetto male. Silenzio, sguardo perso nel vuoto, che si trasforma in rabbia.
Non riesce ad accettare la cosa e si chiude in sé stesso, abbandonando ogni passione, compreso il basket. “Ero completamente stordito. Non sapevo nemmeno se mi sarei mai ripreso. Vivere una cosa del genere è stato davvero difficile.”
Il ricordo di sua madre verrà riassunto in un tatuaggio sul suo braccio destro: una croce cui sopra è impresso il nome della madre e la scritta “In Memory”.
Si trasferisce a casa di sua nonna assieme alla sorellina, non gioca più una partita a basket, salta un intero semestre scolastico perché la nonna non può pagare la retta, e ricomincia a frequentare brutte compagnie, finendo totalmente alla deriva dal punto di vista emotivo.
Nonostante la strada intrapresa sembra essere quelle sbagliata, gli torna la voglia di giocare e di frequentare il tanto amato playground, diventandone il re, con tanti aneddoti che si sprecano su di lui, come quando schiacciò in testa a Chris Webber (all’epoca già professionista), o come quando infilò tre schiacciate di fila in una Summer League.
Il nome circola e arriva all’orecchio di Lou Wilson, che lo invita a giocare per Team Maryland ad un torneo nel 1996, dove fa una figura più che discreta ma la cosa non ha seguito, perché nessuno si fa avanti per proporgli di giocare a livello ufficiale, e le tenebre ritornano.
Tutto cambia quando un suo caro amico viene brutalmente assassinato a Takoma Park: è il momento di cambiare rotta. Chiama Peake e con lui inizia un recupero psicofisico totale, sia scolastico che cestistico, che gli permette di ottenere il diploma GED (General Education Development) e di fare domanda di ammissione ad un “junior college”.
E’ in forma smagliante e le speranze della mamma stanno diventando realtà.
San Jacinto College (Texas) decide di offrirgli una borsa di studio, la squadra arriva fino alla finale del National Junior College Championship, ma lui non è felice, perché si trova troppo lontano da casa.
L’occasione arriva quando Peake gli fa sapere che Allegany College cerca una point guard: non se lo fa ripetere due volte, “The Wink” torna a casa e, in quella stagione 1997/1998, distrugge ogni record della scuola e del campionato, viaggiando a 25.3 punti, 8.7 assist, 7.1 rimbalzi e 5.3 recuperi di media.
Gli amici (tra i quali anche un certo David Vanterpool che verrà a giocare in Italia ad Avellino e Siena) organizzano vere e proprie “macchinate” per vederlo giocare, perché è dominante.
Trascina Allegany alla finale di quel campionato, che però perdono.
A sto giro i “major college” iniziano a fari sentire (Kentucky su tutti), ma lui sceglie Maryland, perché è a pochi passi da casa di sua nonna Mabel, per la gioia della sua gente, perché la leggenda dei playgroud cittadini giocherà per l’università della città.
Quei “Terrapins” fermeranno la coro corsa alle “Sweet 16”, lui si rende eleggibile al Draft NBA del 1999, la nonna è indebitata fino al collo e lui non ce la fa più a vederla così. Ha tenuto in piedi i cocci della famiglia e lui le deve tutto.
Maryland University, nel Febbraio del 2002, ritirerà per sempre la sua maglia numero 23, perchè ha lasciato il segno, nonostante ci abbia giocato un anno solo.
Viene scelto alla 2° pick assoluta dagli allora Vancouver Grizzlies, non proprio la destinazione gradita, anzi, lui in Canada non ci vuole andare.
Peake lavora un’estate intera per sbrogliare la matassa, e ci riesce, mettendo in piedi una trade enorme, con 11 giocatori e 3 squadre coinvolte.
Il 27 Agosto 1999 Steve Francis è un giocatore degli Houston Rockets: è li che inizierà la sua carriera da professionista, con in tasca un iniziale triennale da 10 milioni di dollari complessivi, che gli serviranno a mettere a posto le languenti casse della famiglia.
Quei Rockets, che in organico hanno in dote due leggende come Olajuwon e Barkley, hanno a disposizione anche altri due giocatori, che si chiamano Cuttino Mobley e Kalvin Cato. Entrambi stringeranno un rapporto di amicizia sincero e tutt’ora duraturo con Francis, con Cato che lo aiuta tantissimo, salvaguardandolo dalle insidie di un mondo dove l’avere tanta gente intorno può farti commettere errori che possono risultare gravi.
E’ l’unica persona al mondo che riesce a farmi riflettere e rimanere equilibrato” dirà Francis, che lo avrà come compagno anche a Orlando e New York.
A Houston vogliono che lui diventi il nuovo simbolo della squadra, vogliono che sia al centro del progetto di una squadra che vuole tornare ai vertici dopo i due titoli del 1994 e 1995.
L’inizio è sfavillante, regala giocate incredibilmente spettacolari in relazione al fisico, “posterizza” gente grossa il doppio di lui (soprattutto Jahidi White, all’epoca ai Washington Wizards, che ancora se lo sogna la notte), con l’esaltante sfida contro Vince Carter, allo “Slam Dunk Contest” del 2000, a completare un primo anno da ricordare.
La crescita di Francis (che intanto è diventato “The Franchise”) prosegue, col ritiro di Barkley e la cessione di Olajuwon aumenta la pressione sulle sue spalle, così come il minutaggio e le cifre (si passa dai 20 punti, 7 rimbalzi e 6.5 assist di media del 2000/2001 [suo secondo anno] ai 21 punti, 8 rimbalzi e 7.6 assist del 2002/2003).
Tutto sembra navigare verso la giusta direzione, ma i problemi arrivano dalla sua condizione fisica: gli viene diagnosticata la sindrome di Meniere (malattia che colpisce l’orecchio internamente causando labirintite), e il carico ce lo mette un serio problema al piede, che lo costringerà a saltare 25 partite in quel 2002/2003 che sarà anche la sua miglior stagione numeri alla mano.
Intanto, al Draft del 2002, i Rockets hanno selezionato Yao Ming, gigante cinese di 230 cm per 125 kg, ma con un’eleganza da ballerino del Bolshoj: tra Yao e Steve nascerà un legame fortissimo, partendo proprio dalle enormi differenze culturali che dovrebbero allontanarli, ma che invece sono la base del loro rapporto.
I problemi sono altri, perché in panchina arriva Jeff Van Gundy, col quale non scatta la scintilla (paradossale se pensiamo che Van Gundy è stato l’allenatore della vita di Latrell Sprewell), in quanto non lo vede centrale all’interno del suo gioco.
Il rapporto tra i due è difficile, e raggiunge il suo apice nel Febbraio del 2004, la sera del Super Bowl. I Rockets, quella sera stessa, devono partire per Phoenix: Steve, che possiede un aereo personale, avvisa tutti che raggiungerà la squadra subito dopo l’evento più importante dello sport americano. Organizza un party a casa sua, dove divertirsi e guardare la partita. Qualcuno, invece, afferma di aver visto Francis al Reliant Stadium di Houston, sede del Super Bowl; Van Gundy non aspetta altro e lo sospende.
La squadra riesce a qualificarsi per la post season, ma viene eliminata subito dai Lakers: 19.2 punti, 8.4 rimbalzi e 7.6 assist, questi i numeri di Steve Francis durante i suoi primi, e anche ultimi, Play Off.
E’ il momento di fare le valigie, per lui non c’è più posto a Houston: i Rockets lo spediscono, assieme a Mobley e Cato, ad Orlando.
L’approdo ai Magic rappresenta l’ultima chiamata del ragazzo da Takoma Park nella NBA: la squadra, che è reduce da un drammatico 21-61 e si è consolata pescando Dwight Howard al Draft del 2004, è in totale ricostruzione, con Francis a fare da faro (21.3 punti, 7 assist e 5.8 rimbalzi nel 2004/2005, numeri che tornano di un certo impatto).
L’ambiente, però, capisce altro, cioè che lui sfrutti quella situazione per fini personali: l’aria si fa pesante quando Mobley viene ceduto e lui inizia a mostrare insofferenza. La stampa di Orlando non è mai stata tenera con lui, accusandolo di essere il male assoluto della squadra, lui si sente poco rispettato e mal voluto.
Il 22 Febbraio 2006 si trasferisce ai New York Knicks, dove abbandona l’amata numero 3 (che è sulle spalle di Stephon Marbury) per il numero 1: inutile dire quanta attesa ci sia per vedere i due giocare assieme, come è inutile dire che, come spesso accade nella Grande Mela cestistica, l’accoppiata si rivelerà un flop clamoroso.
Steve è logorato dagli infortuni (l’ultimo è una tendinite al ginocchio), gioca appena 68 partite in due stagioni e non si sente coinvolto nel progetto.
Il 20 Luglio 2007 torna agli Houston Rockets, ma la storia non si ripete: dopo 10 partite viene operato al tendine quadricipite del ginocchio destro, la sua carriera, sostanzialmente, si chiude qui.
Il 24 Dicembre 2008 i Rockets lo cedono ai Memphis Grizzlies che, vendicandosi del secco no ricevuto 9 anni prima, lo tagliano immediatamente. Per Steve Francis non c’è più posto nella NBA, a soli 31 anni.
Nonostante il duro allenamento e la grande voglia di tornare a giocare, resta senza squadra per ben due anni. Nel Novembre del 2010 accetta l’offerta dei Beijing Ducks, e in Cina viene accolto come Gesù Cristo a Gerusalemme: per i tifosi cinesi vedere il grande amico di Yao Ming giocare a basket nel loro paese è un autentico evento.
Durante la sua seconda partita (in quella d’esordio ha giocato appena 17” ma giusto perché i tifosi, spazientiti e li per lui, hanno iniziato a lanciare in campo qualunque cosa perché lui non era sul parquet) mostra il dito medio agli arbitri, ma il bello arriva il 25 Dicembre 2010.
Il Natale cattolico in Cina non è festeggiato, quindi si vive e si lavora normalmente, ma Steve salta l’allenamento per trascorrere la festività con la sua famiglia.
Gli propongono un allenatore personale per fare una sessione ridotta, ma rifiuta: il giorno dopo non viene convocato, quindi lascia la squadra dopo appena due settimane.
Un fallimento clamoroso, l’ultima pagina della sua carriera ma non l'ultima dei suoi guai.
Nel Novembre del 2016 è stato arrestato dalla polizia di Houston per guida pericolosa. Andava a 88 miglia orarie in una zona dove il limite è di 65 miglia orarie. La polizia ha riferito che “The Franchise” puzzava chiaramente di alcool e si è rifiutato di sostenere l’alcool test e, come se ciò non bastasse a peggiorare la situazione, ha aggredito verbalmente uno degli agenti di polizia.
I poliziotti hanno successivamente esaminato la macchina dell’ex Rocket trovando, all’interno del veicolo, della marijuana; di conseguenza è stato arrestato e accusato di guida in stato di ebrezza, possesso di marijuana e oltraggio a pubblico ufficiale.
Nuovamente perso...dentro sè stesso.
Steve Francis è stato uno dei personaggi più profondi e tormentati della storia del basket americano, l’antitesi di sé stesso.
Un giocatore capace di dare al massimo solo quando ha potuto esprimersi liberamente, sempre pronto a prendersi le sue responsabilità.
Uno che ha trovato, nella pallacanestro, la massima espressione delle contraddizioni della sua anima.
Sicura è una cosa: uno così, nel bene e nel male, non si è mai visto.





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