lunedì 30 marzo 2020

Episode Five: The American Dream


Milwaukee, Washington High School, metà degli anni ’80.
Un ragazzone di colore si aggira per i corridoi di quella scuola.
E’ una Milwaukee fredda e non potrebbe essere altrimenti, ma è fredda anche per lui. È smilzo, lungo, ha le mani grandi ed è solo.
Si chiama Latrell, Latrell Sprewell.

La nostra storia assomiglia a quella di tanti altri cestisti cresciuti nell’America di quegli anni. Sono anni duri: se da una parte vi è una tiepida ripresa dei consumi, dall’altra sono le stesse “Reaganomics” (le politiche economiche adottate dall’allora presidente Ronald Reagan) a causare immensi effetti di macelleria sociale. In molti quartieri popolari povertà, delinquenza e disperazione sono delle variabili molto note. E’ in questo desolato scenario che nasce il nostro protagonista, esattamente l’8 Settembre 1970. L’infanzia è davvero terribile, suo padre Latoska è un alcoolizzato che naviga nelle torbide acque della criminalità, e che spesso mette le mani addosso a sua moglie, nonché madre di Spree (questo il suo nomignolo), Patricia, che al contrario è una donna di grande temperamento e senso di responsabilità. E’ un giorno del 1977 quando, dopo l’ennesima lite, il tutto davanti ai due figli della coppia, il padre scappa di casa, non prima di aver distrutto l’appartamento ed essersi portato via macchina, stereo e un visone da 400 dollari. Patricia, che è un’operaia, non ci sta e lo porta davanti al giudice, facendolo mettere dentro; il tutto, però, non prima di essersi riaccasata con un altro compagno che, egualmente, le mette le mani addosso e, non di rado, fa lo stesso anche con in due piccoli. Spree queste cose se le ricorderà.
Si iscrive alla Washington High School, ha da poco compiuto 16 anni, è silenzioso e introverso, ma i suoi 190 cm non passano inosservati, soprattutto a James Gordon, il coach della squadra di basket della scuola.
Hey figliolo, tu giochi a basket?”. Regolarmente, in questo scenario, si intende con arbitri, segnapunti e regole varie. Spree dapprima risponde affermativamente, poi però, compresa la vera natura della domanda, deve ammettere che al di là delle partitelle tra amici non si era mai spinto.
Gli fa svolgere un provino, un 1 vs 1 contro il centro titolare della squadra, che Spree massacra letteralmente.
Finalmente entra a far parte di una squadra e gioca le sue prime partite ufficiali.
In quella squadra segnerà 28 punti a partita, oltre a difendere come un forsennato. Non male per uno che, solo pochi anni prima, era stato tagliato in quel di Flint; ecco dunque perché giocava solo al campetto. Il ragazzo ha talento ma, vista la sua situazione familiare e caratteriale, l’idea di “proseguire gli studi” e giocare al college non sembra essergli passata neanche per l’anticamera del cervello. C’è però un problema: ricordate il provino organizzato da coach Gordon contro il pivot? Ecco, ad assistere c’erano alcune sue amiche. Il problema? Una di queste viene messa incinta proprio da Latrell che pressappoco ha 17 anni. Si deve quindi andare per forza al college.
Vuoi per il rendimento scolastico, vuoi per la location, vuoi per le sue questioni personali, non sembra esserci un major college in grado di accogliere Spree. Riesce però, con molta fortuna, e grazie a coach Gordon, che per lui stravede, e che intercede telefonicamente con Gene Bess, a farsi inserire a Three Rivers Community College (Gene Bess allena li), un piccolo college del Missouri, non certo il massimo, ma pur ottimo nel forgiare il giocatore Sprewell.
Dopo due anni, per altro impressionanti a livello prestazionale, si può andare ad un major college: il suo nome inizia a circolare con insistenza tra gli scouts universitari, che ora lo considerano un giocatore di tutt’altro spessore rispetto a due anni prima.
Si fanno avanti, con insistenza, Kansas e Alabama: Spree sceglie quest’ultima, che tra l’altro necessita di uno specialista difensivo (quella di specialista difensivo diverrà la reputazione che non lo abbandonerà mai più, nonostante parliamo di uno che ha segnato oltre 16.000 punti in NBA).
Il sistema di gioco dei “Crimson Tides” diventa presto Spree-dipendente grazie alla sua intensità difensiva e alla capacità di fare canestro. Stringe, inoltre, una forte amicizia con un certo Robert Horry, suo compagno di squadra, che diventerà anche suo compagno di camera, che lo maledirà perché Spree adora il rock sparato a dei decibel da rave, ma quando coach Hobbs chiede la sveglia la mattina presto per gli allenamenti quel volume alto servirà.
La seconda stagione ad Alabama (1991/1992) è stratosferica (17.8 punti, 5.2 rimbalzi e 2 assist di media), la squadra però non sfonda, le porte della NBA si dovrebbero aprire, ma i dubbi sono i soliti: fisico esile, temperamento non controllabile e blablabla.
Ma ecco che quando tutto sembra finito arriva la telefonata del solito Gordon: “oh, qua tocca che ti trovi un agente, che qualcosa può succedere”, dall’altra parte il classico “ok” taciturno.
Latrell ha bisogno di soldi e l’unica cosa che può garantirglieli è un contratto da professionista, non importa dove.
Ma Gordon, che è uno sveglio, sa già il finale della storia: giorni prima ha ricevuto una telefonata da Don Nelson, fresco vincitore del “Coach of the Year”, che si è letteralmente innamorato di Spree e vuole assolutamente sceglierlo al prossimo Draft.
Per scegliere un deviante ci vuole un altro deviante, e Nelson è perfetto.
Ha allenato per anni, a Milwaukee, con addosso una cravatta a forma di pesce, ma è anche uno dei 4 allenatori nella storia della NBA a vincere almeno 1.000 partite in carriera.
Il 24 Giugno 1992, con la 24° pick, i Golden State Warriors scelgono Latrell Sprewell che, ovviamente, sarà l’assoluto “Steal of the Draft”.
Il primo anno è secondo quintetto all rookie, l’anno dopo, pur non comparendo nelle schede di voto dell’All Star Game, vi partecipa come riserva. Nel 1993/1994, mentre Michael Jordan è impegnato nella sua nuova carriera di giocatore di baseball, c’è lui in guardia nel Primo quintetto All Nba. E’ un giocatore sinceramente straordinario: forte, tenace, atletico. La sua essenza di afro americano, così visibile per via delle classiche treccine, non tarda a manifestarsi ogni qual volta in campo ci sia un rimbalzo da catturare, una palla da recuperare o una penetrazione da effettuare. È’ davvero un cestista d’altri tempi. “Non posso fare a meno di lui, in campo fa tutto quello che gli chiedo: segna 20 punti a partita, passa la palla, va a rimbalzo e difende sul miglior giocatore avversario” il corredo di coach Nelson.
Purtroppo però, i problemi non spariscono del tutto: è tornato a farsi vedere il buon Latoska, ricomparso in quanto in odore di soldi, Golden State perde progressivamente tutti i migliori giocatori. Così la dirigenza si ritrova costretta ad impostare la squadra tutta su Sprewell; ruolo, quello di primo violino, mai pienamente sopportato.
Se da una parte c’è il giocatore, invidiabile, dall’altra c’è un uomo che non ha ancora trovato quello che sta cercando. I problemi caratteriali, connessi alle sempre peggiori prestazioni del collettivo, esplodono in tutta la loro gravità.
Durante un allenamento litiga con Byron Houston, un armadio di 200 cm per circa 115 kg, al quale assesta tre cazzotti prima che il malcapitato si rendesse conto di cosa stava accadendo (eppure, secondo Nelson, tutti avevano paura di Houston, non Spree evidentemente).
Il clima è fin troppo pesante. In un normale allenamento del 1995/1996, durante una partitella, un contatto di gioco tra Spree e Jerome Kersey sfocia in una rissa. Kersey, nettamente più forte e abile “a fare a botte”, mette praticamente al tappeto Sprewell che, completamente stordito, esce dalla palestra. Vi rientra però, dopo appena cinque minuti, brandendo una chiave inglese, deciso a farsi giustizia da solo. I compagni, mettendosi in mezzo e chiudendo Kersey in uno spogliatoio, riescono ad evitare il peggio. Si intuisce, però, di come sia Sprewell il vero problema: il ragazzo non ha controllo di sé stesso e dei suoi nervi. In campo però, quando si gioca e si fa sul serio, è un animale, anzi, come direbbe qualcuno, è un autentico velociraptor per come porta la palla a quel ferro. Intanto, in un’ipotetica clessidra puntata sul 1997, scorrono tanti granellini e siamo quasi alla fine. Nel 1997, ad Oakland, arriva come allenatore PJ Carlesimo. E’ sicuramente un buon allenatore ma ha la reputazione di uno che va spesso in faccia ai giocatori; è aggressivo e molto volgare. Quando allenava a Portland, proprio a causa di questo atteggiamento, Rod Strickland, playmaker titolare, era arrivato a boicottarlo per sette partite.
Con questo genere di persone il nostro Latrell non può andare d’accordo. Carlesimo è intrattabile quando si vince, figurarsi se dopo le prime partite della stagione 1997/1998 il record dei Warriors è 1-13.
Arriviamo al Dicembre 1997, i granelli della clessidra finiscono di scorrere. Durante un allenamento, la reticenza di Spree ad ascoltare i consigli del suo coach in materia di velocità d’esecuzione nei passaggi, sfocia in una furiosa litigata. L’allenatore percorre tutto il campo per andare ad insultare la propria guardia, faccia a faccia. Ma se tutti pensano che la faccenda si fermi qua, è proprio adesso che accade l’incredibile. Arrivati “face to face”, stavolta Spree va al collo e strangola il suo allenatore per quindici secondi mentre gli altri girano la testa dall’altra parte.
Non pago, uscito dalla palestra e poi rientrato, dopo aver chiesto con urla belluine di essere ceduto, arriva anche un pugno in pieno volto dato ad un Carlesimo shockato e quasi inerme. Le conseguenze sono terribili. La squalifica da parte dell’NBA è immediata. Un giocatore così, un uomo così, sembra davvero finito, ed è abbandonato da tutti, nella sua casa di Milwaukee mentre, ovviamente da solo, aspetta una seconda possibilità.
Tra i 29 general manager della Lega, infatti, tutti lo vorrebbero come giocatore ma, per via del suo carattere, nessuno sembra davvero intenzionato ad ingaggiarlo. Tra i 29 poi ce n’è uno che mai e poi mai lo prenderebbe: è Dave Checketts, plenipotenziario dei New York Knicks. Mormone, praticante, timorato di Dio, era colui che aveva detto che uno come Dennis Rodman, anche se avesse preso 30 rimbalzi a partita, nella sua squadra non avrebbe mai giocato.
Alla fine però, dopo tanti colloqui, sono proprio i New York Knicks a concedergli un contratto. La stagione 1998/1999 di Latrell Sprewell è quanto di meglio si possa offrire. Allenatore è Jeff Van Gundy. In una città dove in tanti strangolerebbero il loro datore di lavoro e in una squadra pensata per vincere, o perlomeno per competere, Spree si sente a casa. Per la prima volta in vita sua. New York, arrivata ottava ad Est, riesce incredibilmente ad arrivare fino alle Finals contro i San Antonio Spurs. La squadra non è certo irresistibile, soprattutto dopo l’infortunio di Pat Ewing; ad ogni modo Spree, con un buon supporting cast composto da giocatori quali Allan Houston, Larry Johnson, Kurt Thomas e Marcus Camby, oltre a Charlie Ward (un predicatore in canotta) in regia, riesce ad arrivare fino in fondo. In guardia c’è lui, con la numero 8. Stessa maglia, la numero 8, che diverrà la preferita e la più indossata, in quel periodo di tempo, dal regista Spike Lee che, ad assistere alle partite dei Knicks a bordocampo del Madison Square Garden, c’è sempre. La serie di finale, purtroppo, finisce male: vincono gli Spurs 4-1. Spree non si arrende mai. Ha tra le mani anche l’ultimo tiro dell’ultima partita. Riassumerà con un caustico “all for nothing” quella cavalcata. Paradiso perduto.
Per quattro anni, con oltre 16 punti di media a partita, delizia un pubblico così esigente, con ripetute giocate sopraffine.
Purtroppo però, nel 2003, Van Gundy si dimette e i Knicks decidono di cedere Sprewell. Lo cedono ai Minnesota Timberwolves, dove gioca per due anni, discretamente bene (oltre 14 di media), a fianco di Kevin Garnett e Sam Cassell. La diapositiva della sua avventura a “Minnie” sono i 31 punti che realizza al Madison Square Garden: è, tutt’oggi, il massimo di punti segnati per un ex New York nella sua vecchia dimora. Ogni punto è una dedica per James Dolan, il proprietario della squadra, ritenuto da Latrell colui che aveva deciso per la sua cessione.
A bordocampo c’è Spike Lee che ha il cuore in frantumi.
Il suo contratto coi Twolves scade il 30 Giugno 2005, lui ha 35 anni: la dirigenza gli offre un rinnovo triennale da 21 milioni di dollari complessivi, ma lui rifiuta seccamente sentendosi quasi offeso.
Rilascia, inoltre, una dichiarazione memorabile alla stampa, che chiude con una terribile chiosa: “I’ve got a family to feed” “ho una famiglia da sfamare”.
Diventa free agent e rifiuta, sistematicamente, tutte le offerte che riceve: si fanno avanti Houston, Cleveland e Denver, niente da fare, o i soldi che dice lui o non gioca.
Rispedisce al mittente anche Lakers, Spurs e Mavs, e il buio sta davvero tornando, perché adesso nessuno lo vuole più, nessuno vuole prendersi il rischio, nessuno vuole più avere a che fare con lui.
La NBA l’ha abbandonato e lui è di nuovo solo.
La storia di Spree è stata, per lungo tempo, uno di quei racconti da romanzare.
L’infanzia difficile, il padre violento, il provino fallito a Flint e l’arrivo in NBA.
L’esplosione del suo talento, il baratro, la rinascita.
Un autentico American Dream, come lui amava definirsi (“Dicono che sono il peggior incubo dello sport americano. Ho fatto 3 volte l’All Star Game: io sono il sogno americano che diventa realtà”), ma senza il lieto fine.
E’ stato il secondo giocatore, dopo Jordan, che mi faceva puntare la sveglia in piena notte per guardarlo giocare, e ancora adesso, quando mi capita, guardo i video delle sue migliori giocate. Impazzivo completamente per lui.
“Se potessi reincarnarmi in qualcuno, non vorrei essere MJ. Vorrei essere Spree” diceva di lui un certo Allen Iverson.
Dopo il ritiro i suoi problemi finanziari e legali peggiorano costantemente, così come la sua solitudine.
Nel 2006 la madre dei suoi 4 figli gli fa causa per 200 milioni di dollari e, inoltre, viene indagato per il presunto strangolamento di una ragazza di 21 anni avvenuto durante un rapporto sessuale.
L’anno dopo gli viene confiscato il “Milwaukee’s Best”, il suo yacht da 1.5 milioni di dollari attraccato al porto della città (uno yacht in una città dove anche per 7 mesi l’anno si vedono più nuvole che sole…), perde alcune proprietà e si ritrova a dover pagare 3.5 milioni di dollari di tasse allo stato del Wisconsin.
A completare l’opera ci pensa l’ineffabile papà Latoska che, nel 2009, muore in un incidente stradale.
Latrell vive solo e frequenta poche persone nella sua Milwaukee; è perso nella sua malinconia, non si hanno più notizie di lui.
Fino ad una notte, nel 2013, quando la polizia, chiamata dai suoi vicini di casa, fa irruzione nell’appartamento. Schiamazzi notturni, ascoltava musica a volume altissimo, come ai tempi di Alabama.
I poliziotti entrano in casa e prendono Spree, il quale non oppone alcuna resistenza.
Quando sono entrati era solo, come sempre.




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