“Un guerriero responsabile non è quello che si prende
sulle spalle il peso del mondo.
È colui che ha imparato ad affrontare le sfide del momento.”
[Paulo Coelho]
Tante volte, nel mondo dello sport, si utilizza la parola “guerriero”, quasi se ne abusa.
Ma quando si parla di Alonzo Harding Mourning forse questo termine è quasi limitativo.
Perché lui era un guerriero autentico, di quelli ai quali non puoi fare a meno di affezionarti, quasi volergli bene.
E’ stato uno di quei giocatori che ha lasciato sul parquet ogni forza ed energia che il suo corpo meravigliosamente scolpito rendesse disponibile.
Impossibile davvero non averlo a cuore.
Nasce a Chesapeake l’8 Febbraio 1970 e, come sempre accade nelle nostre storie, anche il protagonista del nostro sesto episodio vive un’infanzia difficile a condizioni economiche a dir poco complicate.
I genitori, stanchi di tante lotte, decidono di divorziare e lui, che a dispetto delle tante difficoltà matura una forza d’animo e una voglia di combattere e riscattarsi dalle tante avversità, prende la decisione di non andare a vivere nè con la madre nè con il padre. Va a vivere in una sorta di casa-famiglia gestita da una certa Fannie Threet, che aveva accudito molti altri ragazzi come lui e che per “Zo” (sarà il suo nickname) diventerà come una madre. “Fannie ha guidato ogni passo del mio cammino. Il suo messaggio era sempre: si può fare. Lei è molto affettuosa, semplicemente incredibile, lei era lì quando avevo bisogno di qualcuno a cui appoggiarmi. Lei mi ha dato l’opportunità di crescere”.
E’ la signora Threet, che ricambia l’affetto alla stessa maniera, notando un certo ardore interno, che gli suggerisce di iscriversi all’Indian River High School, dove il ragazzo inizia a far parlare di sé.
Domina come pochi sotto canestro, diventando subito il miglior stoppatore, della sua categoria, della nazione, oltre a condurre la squadra della sua scuola a 51 vittorie, prima volta in assoluto. L’anno da senior si conferma ad alti livelli, chiudendo la stagione a 25 punti, 15 rimbalzi e 11 stoppate di media (a partita signori miei!!).
E’ arrivato il momento di decidere il college, tra le tante opzioni sceglie Georgetown, famosa per aver reclutato tanti lunghi di livello, tra i quali spiccano Patrick Ewing e Dikembe Mutombo. All’università di Washington continua la sua crescita. Finisce la carriera collegiale come leader di sempre nelle palle recuperate della Divison One. Inoltre è l’unico insieme ad Ewing a finire il college con più di 2000 punti segnati e più di 1000 rimbalzi conquistati.
Dopo i canonici quattro anni di college si rende eleggibile per il Draft NBA del 1992. Gli Charlotte Hornets non se lo fanno sfuggire chiamandolo con la seconda scelta assoluta, subito dietro a Shaquille O’Neal, il miglior prospetto di quel Draft, prima scelta ampiamente dichiarata e suo eterno rivale.
La sua stagione da rookie è di una superiorità quasi imbarazzante, un successo assoluto.
Sfiora di poco la vittoria del “Rookie of the Year”, finendo un’altra volta alle spalle di O’Neal. Le cifre parlano per lui: 21 punti, 10.3 rimbalzi e 3.5 stoppate in 78 gare.
Lui e Shaq sono gli unici giocatori nella storia, assieme a David Robinson, che nella stagione da rookie sono riusciti a mantenere una media di 20 punti e 10 rimbalzi.
Con queste cifre conduce alla post season i suoi Hornets. Al primo turno passano facilmente sui Celtics (3-1) e, in occasione di gara 4, Zo segna il “game winner” che vale il passaggio del turno. Alle Semifinali di Conference, però, i Knicks di Ewing fermano la corsa di Zo e degli Hornets.
La seconda stagione è un contraltare della prima. Zo ha a che fare con molteplici infortuni e l’andamento degli Hornets ne risente parecchio. Le cifre a fine stagione restano comunque molto positive (21.5 punti e 10.2 rimbalzi), ma gli Hornets non riescono a qualificarsi per i playoff.
La valvola di sfogo è però dietro l’angolo: in quell’estate del 1994, in Canada, viene convocato in quello che verrà ribattezzato “The Dream Team II”, e si laureerà campione del Mondo.
Serve la svolta, la classica svolta che gira vita e carriera.
Al termine della sua terza stagione a Charlotte rifiuta il prolungamento contrattuale, quindi gli Hornets lo cedono ai Miami Heat.
Il 3 Novembre 1995 è una data che certamente Alonzo avrà cerchiato nel calendario della sua vita, perché è la data del suo primo incontro con Pat Riley.
Tra lui e il leggendario coach si instaura un rapporto che durerà negli anni e continua anche oggi.
Riley gli affianca due assi del calibro di Tim Hardaway e Jamal Mashburn.
Sette stagioni, dal 1995/1996 al 2001/2002, la prima vita di Mourning nella franchigia della Florida.
Le medie punti oscillano dai 23.2 del primo anno ai 15.7 dell’ultimo, con la solita doppia cifra di rimbalzi ad accompagnare e le stoppate a fare da contorno.
Il problema è che le premesse non vengono rispettate a livello di risultati di squadra, perché nonostante gli Heat si confermassero ai vertici della Eastern Conference, ai playoff non riuscivano mai a farsi strada verso le Finals. La maggior parte delle eliminazioni furono ad opera dei New York Knicks, con i quali nacque una vera e propria rivalità che culmina nel 1998.
Durante gara 4 di quel primo turno, Zo e il suo ex compagno agli Hornets, Larry Johnson, ebbero una rissa che li fece squalificare per l’ultima gara della serie, che gli Heat persero.
Anche nel 1999, quando Miami entra ai playoff con la prima posizione ad Est, i giustizieri arrivano dalla Grande Mela e si impongono, nuovamente, per 3-2; un incubo senza fine, ma che per Zo sarebbe stato solletico rispetto alla tempesta che sta per investirlo.
Partecipa alle Olimpiadi di Sydney 2000, dove vince la medaglia d’oro: al suo ritorno negli States scopre di essere malato.
Il verdetto fa gelare il sangue: Glomerulosclerosi segmentaria e focale. Una malattia che colpisce i reni, una sindrome clinico-patologica caratterizzata da proteinuria massiva tipicamente non selettiva, ipertensione sistemica, insufficienza renale, resistenza agli steroidi e lesioni sclero-ialine glomerulari.
La causa sembra essere attribuita alla mole spaventosa di antinfiammatori assunta durante i primi anni di carriera per giocare sempre, perché lui non contemplava l’idea di fermarsi.
Ma ora deve fermarsi: una bestia (“The Beast” sarà un altro dei suoi soprannomi) di 208 cm per 118 kg, con un fisico che sembra scolpito da Nesiote, che faceva 220 kili di panca in sala pesi, si era ridotto a non poterne alzare 5.
Si ferma una prima volta dopo 13 gare nel 2000/2001, ma lui è un duro, uno che non molla mai, e come tale non ha mollato neanche in questa circostanza. Dopo essersi sottoposto ad un trattamento intensivo che lo tiene lontano dai campi per 5 mesi, ottiene il via libera dai medici nella stagione successiva (2001/2002), nella quale gioca 75 partite viaggiando 15.7 punti, 8.4 rimbalzi e 2.5 stoppate di media, PAZZESCO.
Un peggioramento improvviso delle sue condizioni lo costringe a restare ai box per l’intera stagione 2002/2003.
Nell’estate del 2003 scade il suo contratto con i Miami Heat, quindi si accasa agli allora New Jersey Nets, dove poteva tornare in forma.
L’apparente tranquillità dura solo 12 partite, perché la malattia torna, prepotente, a stoppare la sua voglia incredibile di spaccare il mondo.
E’ costretto al ritiro temporaneo dall’attività, ma la buona notizia è che suo cugino, Jason Cooper (un marine), gli offre la possibilità di effettuare un trapianto di rene, che è compatibile al suo.
Trapianto fu e, a quel punto, il pensiero è uno e uno soltanto: tornare da chi aveva creduto in lui quel 3 Novembre 1995.
La telefonata arriva da Riley, e il dialogo è più o meno questo: “sono coach Riley, abbiamo già Shaq in squadra, se vieni ti metterai un anello al dito”.
Il primo anno questo non avviene (vanno fuori in Final Conference 4-3 contro i Detroit Pistons), è scoraggiato e pensa seriamente di smettere, ma è ancora Riley a convincerlo, perché è forse l’unico ad essere sicuro che quella storia avrà un lieto fine.
E in quella versione dei Miami Heat 2005/2006 trova il miglior Dwyane Wade di sempre sotto l’aspetto fisico (non a caso verrà rinominato “The Flash”), trova Shaq, proprio lui, quello che al Draft del ’92 gli era stato preferito come prima scelta assoluta, e trova tanti ottimi giocatori in cerca dell’appuntamento con la storia.
Interrogato sulla sua convivenza forzata con O’Neal dirà: “non ci saranno problemi con lui, la nostra rivalità non conta più perché adesso sono nella sua squadra”, e con queste pretese Riley si sfrega le mani.
Se qualcuno legge le sue cifre in quella stagione (7.8 punti, 5.5 rimbalzi e 2.7 stoppate di media in Regular Season e 3.8 punti, 3 rimbalzi e 1.1 stoppate di media nei Play Off) potrebbe pensare ad un apporto minimo, ma non fatevi ingannare, perché il suo contributo tecnico ed emotivo andrà oltre tutti i numeri prodotti.
Ai Play Off eliminano Bulls, Nets e, alle Final Conference, quei Detroit Pistons che gli avevano impedito di raggiungere l’ultimo atto la stagione precedente.
Le Finals finiscono con la clamorosa rimonta, da 0-2 e quasi morti in gara 3 al 4-2, ai danni dei Dallas Mavericks, la sua gara 6 recita 8 punti, 6 rimbalzi e 5 stoppate in 14 minuti, secondo per plus/minus dell’intera squadra.
E’ campione NBA, si è messo l’anello al dito, il giusto premio per tutto quello che ha dovuto passare.
Gioca un altro anno e mezzo, l’ultimo atto avviene il 19 Dicembre 2007: nel primo quarto della partita contro gli Atlanta Hawks il suo ginocchio destro cede.
La diagnosi è, ovviamente, impietosa: rottura del tendine rotuleo e lesione del quadricipite, l’ennesimo scherzo di un destino beffardo.
Quello che ci resta, però, di quel momento, è la sua forza e la sua incredibile grinta: i sanitari arrivano sul campo per aiutarlo ad alzarsi, portano la barella, ma Zo ha mostrato denti e muscoli troppe volte per uscire disteso su un lettino: “su quella fottuta barella non esco. Voglio uscire sulle mie gambe”.
E questo avviene, perché si alza da solo ed esce da solo, con l’American Airlines Arena in un totale tripudio di applausi e lacrime.
Proprio come fanno i guerrieri, come chi ha visto il dolore, quello vero, e ci è passato sopra con rabbia.
Smette di giocare, ma entrerà nella leggenda, perché il 30 Marzo 2009 gli Heat ritirano la sua numero 33, che sventola fiera sul soffitto del “Triple A”, e nel 2014 verrà inserito nella Hall of Fame, tra i migliori giocatori di sempre.
Il giusto lieto fine per un eroe, un vero eroe.
I titoli di coda di questo episodio li lascio volentieri ad uno che, con gli Heat, ha scritto discrete pagine di storia, ovvero Dwyane Wade: “pensate a tutto quello che ha attraversato. Se pensate a Miami pensate ad Alonzo Mourning.”
Impossibile dargli torto.
Non un semplice giocatore, ma molto molto di più.
Tante volte, nel mondo dello sport, si utilizza la parola “guerriero”, quasi se ne abusa.
Ma quando si parla di Alonzo Harding Mourning forse questo termine è quasi limitativo.
Perché lui era un guerriero autentico, di quelli ai quali non puoi fare a meno di affezionarti, quasi volergli bene.
E’ stato uno di quei giocatori che ha lasciato sul parquet ogni forza ed energia che il suo corpo meravigliosamente scolpito rendesse disponibile.
Impossibile davvero non averlo a cuore.
Nasce a Chesapeake l’8 Febbraio 1970 e, come sempre accade nelle nostre storie, anche il protagonista del nostro sesto episodio vive un’infanzia difficile a condizioni economiche a dir poco complicate.
I genitori, stanchi di tante lotte, decidono di divorziare e lui, che a dispetto delle tante difficoltà matura una forza d’animo e una voglia di combattere e riscattarsi dalle tante avversità, prende la decisione di non andare a vivere nè con la madre nè con il padre. Va a vivere in una sorta di casa-famiglia gestita da una certa Fannie Threet, che aveva accudito molti altri ragazzi come lui e che per “Zo” (sarà il suo nickname) diventerà come una madre. “Fannie ha guidato ogni passo del mio cammino. Il suo messaggio era sempre: si può fare. Lei è molto affettuosa, semplicemente incredibile, lei era lì quando avevo bisogno di qualcuno a cui appoggiarmi. Lei mi ha dato l’opportunità di crescere”.
E’ la signora Threet, che ricambia l’affetto alla stessa maniera, notando un certo ardore interno, che gli suggerisce di iscriversi all’Indian River High School, dove il ragazzo inizia a far parlare di sé.
Domina come pochi sotto canestro, diventando subito il miglior stoppatore, della sua categoria, della nazione, oltre a condurre la squadra della sua scuola a 51 vittorie, prima volta in assoluto. L’anno da senior si conferma ad alti livelli, chiudendo la stagione a 25 punti, 15 rimbalzi e 11 stoppate di media (a partita signori miei!!).
E’ arrivato il momento di decidere il college, tra le tante opzioni sceglie Georgetown, famosa per aver reclutato tanti lunghi di livello, tra i quali spiccano Patrick Ewing e Dikembe Mutombo. All’università di Washington continua la sua crescita. Finisce la carriera collegiale come leader di sempre nelle palle recuperate della Divison One. Inoltre è l’unico insieme ad Ewing a finire il college con più di 2000 punti segnati e più di 1000 rimbalzi conquistati.
Dopo i canonici quattro anni di college si rende eleggibile per il Draft NBA del 1992. Gli Charlotte Hornets non se lo fanno sfuggire chiamandolo con la seconda scelta assoluta, subito dietro a Shaquille O’Neal, il miglior prospetto di quel Draft, prima scelta ampiamente dichiarata e suo eterno rivale.
La sua stagione da rookie è di una superiorità quasi imbarazzante, un successo assoluto.
Sfiora di poco la vittoria del “Rookie of the Year”, finendo un’altra volta alle spalle di O’Neal. Le cifre parlano per lui: 21 punti, 10.3 rimbalzi e 3.5 stoppate in 78 gare.
Lui e Shaq sono gli unici giocatori nella storia, assieme a David Robinson, che nella stagione da rookie sono riusciti a mantenere una media di 20 punti e 10 rimbalzi.
Con queste cifre conduce alla post season i suoi Hornets. Al primo turno passano facilmente sui Celtics (3-1) e, in occasione di gara 4, Zo segna il “game winner” che vale il passaggio del turno. Alle Semifinali di Conference, però, i Knicks di Ewing fermano la corsa di Zo e degli Hornets.
La seconda stagione è un contraltare della prima. Zo ha a che fare con molteplici infortuni e l’andamento degli Hornets ne risente parecchio. Le cifre a fine stagione restano comunque molto positive (21.5 punti e 10.2 rimbalzi), ma gli Hornets non riescono a qualificarsi per i playoff.
La valvola di sfogo è però dietro l’angolo: in quell’estate del 1994, in Canada, viene convocato in quello che verrà ribattezzato “The Dream Team II”, e si laureerà campione del Mondo.
Serve la svolta, la classica svolta che gira vita e carriera.
Al termine della sua terza stagione a Charlotte rifiuta il prolungamento contrattuale, quindi gli Hornets lo cedono ai Miami Heat.
Il 3 Novembre 1995 è una data che certamente Alonzo avrà cerchiato nel calendario della sua vita, perché è la data del suo primo incontro con Pat Riley.
Tra lui e il leggendario coach si instaura un rapporto che durerà negli anni e continua anche oggi.
Riley gli affianca due assi del calibro di Tim Hardaway e Jamal Mashburn.
Sette stagioni, dal 1995/1996 al 2001/2002, la prima vita di Mourning nella franchigia della Florida.
Le medie punti oscillano dai 23.2 del primo anno ai 15.7 dell’ultimo, con la solita doppia cifra di rimbalzi ad accompagnare e le stoppate a fare da contorno.
Il problema è che le premesse non vengono rispettate a livello di risultati di squadra, perché nonostante gli Heat si confermassero ai vertici della Eastern Conference, ai playoff non riuscivano mai a farsi strada verso le Finals. La maggior parte delle eliminazioni furono ad opera dei New York Knicks, con i quali nacque una vera e propria rivalità che culmina nel 1998.
Durante gara 4 di quel primo turno, Zo e il suo ex compagno agli Hornets, Larry Johnson, ebbero una rissa che li fece squalificare per l’ultima gara della serie, che gli Heat persero.
Anche nel 1999, quando Miami entra ai playoff con la prima posizione ad Est, i giustizieri arrivano dalla Grande Mela e si impongono, nuovamente, per 3-2; un incubo senza fine, ma che per Zo sarebbe stato solletico rispetto alla tempesta che sta per investirlo.
Partecipa alle Olimpiadi di Sydney 2000, dove vince la medaglia d’oro: al suo ritorno negli States scopre di essere malato.
Il verdetto fa gelare il sangue: Glomerulosclerosi segmentaria e focale. Una malattia che colpisce i reni, una sindrome clinico-patologica caratterizzata da proteinuria massiva tipicamente non selettiva, ipertensione sistemica, insufficienza renale, resistenza agli steroidi e lesioni sclero-ialine glomerulari.
La causa sembra essere attribuita alla mole spaventosa di antinfiammatori assunta durante i primi anni di carriera per giocare sempre, perché lui non contemplava l’idea di fermarsi.
Ma ora deve fermarsi: una bestia (“The Beast” sarà un altro dei suoi soprannomi) di 208 cm per 118 kg, con un fisico che sembra scolpito da Nesiote, che faceva 220 kili di panca in sala pesi, si era ridotto a non poterne alzare 5.
Si ferma una prima volta dopo 13 gare nel 2000/2001, ma lui è un duro, uno che non molla mai, e come tale non ha mollato neanche in questa circostanza. Dopo essersi sottoposto ad un trattamento intensivo che lo tiene lontano dai campi per 5 mesi, ottiene il via libera dai medici nella stagione successiva (2001/2002), nella quale gioca 75 partite viaggiando 15.7 punti, 8.4 rimbalzi e 2.5 stoppate di media, PAZZESCO.
Un peggioramento improvviso delle sue condizioni lo costringe a restare ai box per l’intera stagione 2002/2003.
Nell’estate del 2003 scade il suo contratto con i Miami Heat, quindi si accasa agli allora New Jersey Nets, dove poteva tornare in forma.
L’apparente tranquillità dura solo 12 partite, perché la malattia torna, prepotente, a stoppare la sua voglia incredibile di spaccare il mondo.
E’ costretto al ritiro temporaneo dall’attività, ma la buona notizia è che suo cugino, Jason Cooper (un marine), gli offre la possibilità di effettuare un trapianto di rene, che è compatibile al suo.
Trapianto fu e, a quel punto, il pensiero è uno e uno soltanto: tornare da chi aveva creduto in lui quel 3 Novembre 1995.
La telefonata arriva da Riley, e il dialogo è più o meno questo: “sono coach Riley, abbiamo già Shaq in squadra, se vieni ti metterai un anello al dito”.
Il primo anno questo non avviene (vanno fuori in Final Conference 4-3 contro i Detroit Pistons), è scoraggiato e pensa seriamente di smettere, ma è ancora Riley a convincerlo, perché è forse l’unico ad essere sicuro che quella storia avrà un lieto fine.
E in quella versione dei Miami Heat 2005/2006 trova il miglior Dwyane Wade di sempre sotto l’aspetto fisico (non a caso verrà rinominato “The Flash”), trova Shaq, proprio lui, quello che al Draft del ’92 gli era stato preferito come prima scelta assoluta, e trova tanti ottimi giocatori in cerca dell’appuntamento con la storia.
Interrogato sulla sua convivenza forzata con O’Neal dirà: “non ci saranno problemi con lui, la nostra rivalità non conta più perché adesso sono nella sua squadra”, e con queste pretese Riley si sfrega le mani.
Se qualcuno legge le sue cifre in quella stagione (7.8 punti, 5.5 rimbalzi e 2.7 stoppate di media in Regular Season e 3.8 punti, 3 rimbalzi e 1.1 stoppate di media nei Play Off) potrebbe pensare ad un apporto minimo, ma non fatevi ingannare, perché il suo contributo tecnico ed emotivo andrà oltre tutti i numeri prodotti.
Ai Play Off eliminano Bulls, Nets e, alle Final Conference, quei Detroit Pistons che gli avevano impedito di raggiungere l’ultimo atto la stagione precedente.
Le Finals finiscono con la clamorosa rimonta, da 0-2 e quasi morti in gara 3 al 4-2, ai danni dei Dallas Mavericks, la sua gara 6 recita 8 punti, 6 rimbalzi e 5 stoppate in 14 minuti, secondo per plus/minus dell’intera squadra.
E’ campione NBA, si è messo l’anello al dito, il giusto premio per tutto quello che ha dovuto passare.
Gioca un altro anno e mezzo, l’ultimo atto avviene il 19 Dicembre 2007: nel primo quarto della partita contro gli Atlanta Hawks il suo ginocchio destro cede.
La diagnosi è, ovviamente, impietosa: rottura del tendine rotuleo e lesione del quadricipite, l’ennesimo scherzo di un destino beffardo.
Quello che ci resta, però, di quel momento, è la sua forza e la sua incredibile grinta: i sanitari arrivano sul campo per aiutarlo ad alzarsi, portano la barella, ma Zo ha mostrato denti e muscoli troppe volte per uscire disteso su un lettino: “su quella fottuta barella non esco. Voglio uscire sulle mie gambe”.
E questo avviene, perché si alza da solo ed esce da solo, con l’American Airlines Arena in un totale tripudio di applausi e lacrime.
Proprio come fanno i guerrieri, come chi ha visto il dolore, quello vero, e ci è passato sopra con rabbia.
Smette di giocare, ma entrerà nella leggenda, perché il 30 Marzo 2009 gli Heat ritirano la sua numero 33, che sventola fiera sul soffitto del “Triple A”, e nel 2014 verrà inserito nella Hall of Fame, tra i migliori giocatori di sempre.
Il giusto lieto fine per un eroe, un vero eroe.
I titoli di coda di questo episodio li lascio volentieri ad uno che, con gli Heat, ha scritto discrete pagine di storia, ovvero Dwyane Wade: “pensate a tutto quello che ha attraversato. Se pensate a Miami pensate ad Alonzo Mourning.”
Impossibile dargli torto.
Non un semplice giocatore, ma molto molto di più.
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