“That’s why they got me here”
Ecco perché mi hanno portato qui.
Quante volte l’ha urlato dopo un canestro, dopo una stoppata, dopo una schiacciata.
Espressività allo stato puro.
Verità allo stato puro, sempre e comunque.
Trasparente e limpido, come le acque di Mystic River.
“You can’t handle The Truth”.
Scoprire la verità guardando la palla che si insacca nel canestro, schiaffeggiando la retina.
Unica e sola, come unica e sola è la storia di Paul Anthony Pierce.
Ecco perché mi hanno portato qui.
Quante volte l’ha urlato dopo un canestro, dopo una stoppata, dopo una schiacciata.
Espressività allo stato puro.
Verità allo stato puro, sempre e comunque.
Trasparente e limpido, come le acque di Mystic River.
“You can’t handle The Truth”.
Scoprire la verità guardando la palla che si insacca nel canestro, schiaffeggiando la retina.
Unica e sola, come unica e sola è la storia di Paul Anthony Pierce.
Oakland, costa est della
Baia di San Francisco, una città che in questi anni abbiamo imparato a
conoscere grazie ad una squadra capace di vincere tre titoli NBA dal 2015 al
2018.
Ad Oakland nasce il protagonista del nostro quarto episodio.
Abbandonato in fasce da suo padre, sua madre Lorraine si sdoppia, come tante volte accade in America, e gli fa anche da papà.
Suo fratello maggiore Steve vince una borsa di studio a Fresno State, allora tutta la famiglia si trasferisce ad Inglewood, a poche centinaia di metri dal Forum dove, a quei tempi, i Lakers di Magic Johnson e Kareem Abdul Jabbar duellano coi Celtics di Larry Bird e Robert Parish per il trono di dominatori della NBA.
Tenetela via questa, perché ci tornerà utile più avanti.
E’ in un ambiente dove si respira basket a 360° che cresce il piccolo Paul, che a 14 anni si iscrive alla Inglewood High School.
C’è un detto che recita più o meno così: “In Inglewood you can only do two things: you shoot or you play basketball”, che tradotto vuol dire, senza mezzi termini, “A Inglewood puoi fare solo due cose: o spari o giochi a basket”.
Non è un caso che Tupac la menzioni in modo non troppo onorevole nella sua California Love.
Per fortuna (sua ma anche e soprattutto di noi appassionati) sceglie la seconda, anche grazie a Scott Pollard, che diventa il padre che non ha mai avuto.
Dalle 9 alle 17 fa l’investigatore privato, dalle 17 e un minuto è l’allenatore della squadra giovanile della scuola.
Toglie dalla strada tantissimi ragazzi, tutti orfani di padre, o abbandonati.
E’ il primo che affina tanti particolari nel gioco di Paul, che nel 1995 gioca alla grande al McDonald’s All American High School Tournament.
E’ tempo di andare al college: sceglie Kansas City (l'Università dove James Naismith inventò la pallacanestro e dove nacque, alla fine degli anni '50, il mito di Wilt Chamberlain), borsa di studio in criminologia, che lascerà, nel 1998, come quinto miglior realizzatore di sempre nella storia dell’ateneo.
Le tre stagioni coi “Jayhawks”, a livello di rendimento personale, sono pazzesche, ormai le porte del professionismo si sono aperte.
Lui resterebbe volentieri a Los Angeles, ma i Clippers, detentori della prima scelta assoluta al Draft del 1998, con a disposizione gente come lui, Dirk Nowitzki, Vince Carter, Jason Williams e Mike Bibby, scelgono Michael Olowokandi (bocca mia taci!).
Lui deve attendere altre 8 chiamate, perché lo sceglieranno i Boston Celtics alla 10° pick.
Fa già capire di non essere uno dei tanti nelle prime due stagioni in biancoverde, ma agli albori della terza succede qualcosa che rischia di rovinare tutto.
25 Settembre 2000, Buzz Club di Boston. Il classico posto sbagliato al momento sbagliato.
Paul Pierce si trova in questo locale ad una festa, assieme a suo fratello Derrick e all’allora compagno di squadra Tony Battie.
Intorno all’1 di notte due ragazze iniziarono ad intavolare una chiacchierata con Paul, sullo sfondo osserva, non proprio entusiasta della cosa, tale William Rangland, a Boston noto come “Roscoe”, cugino di una delle due, malvivente legato ai Made Men, una delle bande criminali più pericolose della città. Si avvicina con fare minaccioso dove sta avvenendo la chiacchierata.
Paul non ha neanche il tempo di tranquillizzarlo che scoppia una rissa incredibile. Roscoe, in preda ad un’assurda crisi di rabbia, affonda 12 pugnalate tra petto, faccia, collo e spalla. Una di queste, profonda 18 cm, si ferma a pochi centimetri dal cuore.
“Tony spero di non morire. Voglio soltanto superare questo momento.” Sono le prime cose che riesce a dire a Battie, che è con lui.
Quando arrivano in ospedale cerca nuovamente il compagno: “Non mi hanno colpito il braccio vero?”. La vita in bilico, il basket nella mente. Tre giorni dopo esce dall’ospedale, al quale donerà 2.5 milioni di dollari come ringraziamento per avergli salvato vita e carriera (diventando successivamente membro del Consiglio d'Amministrazione), torna ad allenarsi e gioca tutte e 82 le partite di regular season, in un’altra stagione mediocre dei Celtics targati Pitino, cacciato a metà stagione per far posto a Jim O’Brien.
Con O’Brien i Celtics tornano a buoni rendimenti, arrivando fino alle Conference Finals dove verranno sconfitti dai Nets.
C’è bisogno di girare il trend (lui non scende mai sotto i 23 punti a partita, ma non serve a molto), e la prima svolta arriva nell’Aprile del 2004, quando la società fa sedere, in panchina, Doc Rivers.
Con lui arriva anche Gary Payton che, insieme al gruppo già presente, con l’aggiunta di qualche veterano e l’implementazione di un buon sistema difensivo, vede i Celtics tornare a discreti livelli, ma sempre fermi al 1° round per mano dei Pacers.
Durante la stagione 2006/2007, con Boston protagonista di un pessimo 24-58, la pazienza di Pierce inizia a scarseggiare, tanto da mettere pressione a Danny Ainge per “ricevere aiuto”, minacciando, in caso contrario, di chiedere una trade. E il G.M. obbedisce: arrivano Ray Allen e, dopo mesi di trattative durissime (non era convinto di giocare per Boston e rifiutava un contratto a lungo termine), Kevin Garnett, che Pierce (che intanto, dal 13 Marzo 2001, dopo aver inflitto una sonora lezione ai Lakers campioni in carica, è diventato “The Truth”, nickname che gli affibbia Shaquille O’Neal a fine partita dicendo ad un giornalista: “prendi nota amico, io sono Shaq, Paul Pierce è La Verità. Dammi retta. Sapevo che sa giocare, ma non sapevo che potesse giocare in questa maniera”) aveva già conosciuto in quel McDonald’s All American High School Tournament del 1995.
Inizia l’era dei “Big Three” con anche, come contorno, Rondo e Perkins, e un pieno di veterani specialisti, che dominano con un 66-16 la Regular Season. Il leader è ancora lui, ma con accanto due campioni e un “sophomore” in costante miglioramento le cose sono più facili. La difesa è impenetrabile e i Celtics passano prima in 7 gare contro Atlanta, con proprio Pierce, autore di 22 punti in Gara 7, come prima opzione. Ma non è qui che Paul farà l’eroe. Al secondo turno arrivano i Cavaliers di un LeBron James ormai in rampa di lancio, e anche con Cleveland si va alla settima. Gara 7 di quella serie verrà ricordata come una battaglia epica, con LBJ da una parte e The Truth dall’altra. La spuntano i biancoverdi, grazie a questa prestazione del nostro protagonista: 41 punti conditi da 5 assist, 4 rimbalzi e 2 recuperi. Neanche i 45 punti di LeBron fermano Paul, con i “Celts” che prendono il treno per le Conference Finals, nelle quali lui e Garnett, in 6 gare, liquidano i Pistons. Si arriva alle Finals, col solito fascino delle sfide tra Lakers e Celtics: proprio Pierce è protagonista di Gara 1, passata alla storia come “Wheelchair Game“. Perkins, in un’azione difensiva durante il terzo periodo, colpisce Paul (che intanto è diventato anche “P-Square”), che cade a terra e viene portato in spogliatoio. Il Garden è in silenzio, ma pochi minuti dopo ritorna in campo, segna due triple e conduce i Celtics a una rimonta vincente. Sarà una delle migliori prestazioni, da infortunato, di un giocatore ai Play Off. Boston ci mette “solo” 6 gare a battere i Lakers, e Pierce è l’MVP del primo titolo Celtico dal 1986.
Due anni dopo i Celtics sembrano pronti al bis, ma la loro avventura si ferma all’ultimo step: gara 7, ancora contro i Lakers, che stavolta si prendono la rivincita.
Nel 2011/2012 sono i Miami Heat a fermare i biancoverdi (intanto, il 7 Febbraio del 2012, sorpassa Larry Bird e diventa il secondo miglior realizzatore ogni epoca dei Celtics), mentre nel 2012/2013 si fermano addirittura al primo turno contro i Knikcs.
Siamo al passo d’addio: gara 6, mancano 28” alla sirena finale, partita ormai in ghiaccio, Rivers richiama in panchina tutti e tre i campioni per una lunghissima standing ovation.
Da quel maledetto 25 Settembre sono passati quasi 13 anni, e mentre piange e abbraccia tutti ripensa a quante ne ha passate, e aver vinto un titolo proprio con Boston e a Boston è un qualcosa che gli resterà dentro per sempre.
Ci prova un altro anno ai Brooklyn Nets, assieme a Terry e Garnett, con pessimi risultati.
Quindi firma per i Washington Wizards: nella serie play off contro i Raptors, in gara 2 e con un piede già verso l’eliminazione, Paul regala l’ennesima giocata da fenomeno.
Wall penetra, scarica per lui che lascia andare la tripla: solo rete. “That’s why they got me here”.
Lui è li per quello. Quei Wizards andranno fuori al turno successivo contro gli Atlanta Hawks, siamo ai titoli di coda.
Si ricongiunge a Doc Rivers con addosso la canotta dei Clippers, nella sua Los Angeles, nella speranza di colmare il vuoto che la franchigia ha nel ruolo di ala piccola (nel Maggio del 2017 supera John Havlicek e diventa il miglior realizzatore di sempre nella storia dei Celtics, e attuale 17° nella storia della NBA, con 26.397 punti complessivi) ma intanto ha deciso di ritirarsi al termine di quella stagione (2016/2017), e lo farà da giocatore dei Boston Celtics.
Il 17 Luglio 2017 firma un contratto simbolico da un giorno coi biancoverdi.
L’11 Febbraio 2018 la sua numero 34 viene issata sul soffitto del Garden, li resterà per sempre, nessuno potrà più indossarla.
Il 12 Settembre 2021 viene introdotto nella Hall of Fame.
La storia di Boston, la storia della NBA, la storia di un ragazzo che ha rischiato la vita per pochi centimetri.
Ha giocato 1.392 partite con addosso le cicatrici di quella notte, e quando l’abbiamo visto correre, tirare, esultare, incitare, buttarsi a terra su una palla vagante, ci siamo ricordati di quel 25 Settembre 2000, e a che cuore immenso abbia Paul Pierce.
“Sono nato nel ghetto e sono riuscito ad andare al college. Ho ricevuto 12 pugnalate ai polmoni, ma mi hanno salvato. Dopo tutto questo, sono sicuro che i miracoli possono accadere. Forse perché non ho mai smesso di sperare”.
Only The Truth…Always The Truth.
Ad Oakland nasce il protagonista del nostro quarto episodio.
Abbandonato in fasce da suo padre, sua madre Lorraine si sdoppia, come tante volte accade in America, e gli fa anche da papà.
Suo fratello maggiore Steve vince una borsa di studio a Fresno State, allora tutta la famiglia si trasferisce ad Inglewood, a poche centinaia di metri dal Forum dove, a quei tempi, i Lakers di Magic Johnson e Kareem Abdul Jabbar duellano coi Celtics di Larry Bird e Robert Parish per il trono di dominatori della NBA.
Tenetela via questa, perché ci tornerà utile più avanti.
E’ in un ambiente dove si respira basket a 360° che cresce il piccolo Paul, che a 14 anni si iscrive alla Inglewood High School.
C’è un detto che recita più o meno così: “In Inglewood you can only do two things: you shoot or you play basketball”, che tradotto vuol dire, senza mezzi termini, “A Inglewood puoi fare solo due cose: o spari o giochi a basket”.
Non è un caso che Tupac la menzioni in modo non troppo onorevole nella sua California Love.
Per fortuna (sua ma anche e soprattutto di noi appassionati) sceglie la seconda, anche grazie a Scott Pollard, che diventa il padre che non ha mai avuto.
Dalle 9 alle 17 fa l’investigatore privato, dalle 17 e un minuto è l’allenatore della squadra giovanile della scuola.
Toglie dalla strada tantissimi ragazzi, tutti orfani di padre, o abbandonati.
E’ il primo che affina tanti particolari nel gioco di Paul, che nel 1995 gioca alla grande al McDonald’s All American High School Tournament.
E’ tempo di andare al college: sceglie Kansas City (l'Università dove James Naismith inventò la pallacanestro e dove nacque, alla fine degli anni '50, il mito di Wilt Chamberlain), borsa di studio in criminologia, che lascerà, nel 1998, come quinto miglior realizzatore di sempre nella storia dell’ateneo.
Le tre stagioni coi “Jayhawks”, a livello di rendimento personale, sono pazzesche, ormai le porte del professionismo si sono aperte.
Lui resterebbe volentieri a Los Angeles, ma i Clippers, detentori della prima scelta assoluta al Draft del 1998, con a disposizione gente come lui, Dirk Nowitzki, Vince Carter, Jason Williams e Mike Bibby, scelgono Michael Olowokandi (bocca mia taci!).
Lui deve attendere altre 8 chiamate, perché lo sceglieranno i Boston Celtics alla 10° pick.
Fa già capire di non essere uno dei tanti nelle prime due stagioni in biancoverde, ma agli albori della terza succede qualcosa che rischia di rovinare tutto.
25 Settembre 2000, Buzz Club di Boston. Il classico posto sbagliato al momento sbagliato.
Paul Pierce si trova in questo locale ad una festa, assieme a suo fratello Derrick e all’allora compagno di squadra Tony Battie.
Intorno all’1 di notte due ragazze iniziarono ad intavolare una chiacchierata con Paul, sullo sfondo osserva, non proprio entusiasta della cosa, tale William Rangland, a Boston noto come “Roscoe”, cugino di una delle due, malvivente legato ai Made Men, una delle bande criminali più pericolose della città. Si avvicina con fare minaccioso dove sta avvenendo la chiacchierata.
Paul non ha neanche il tempo di tranquillizzarlo che scoppia una rissa incredibile. Roscoe, in preda ad un’assurda crisi di rabbia, affonda 12 pugnalate tra petto, faccia, collo e spalla. Una di queste, profonda 18 cm, si ferma a pochi centimetri dal cuore.
“Tony spero di non morire. Voglio soltanto superare questo momento.” Sono le prime cose che riesce a dire a Battie, che è con lui.
Quando arrivano in ospedale cerca nuovamente il compagno: “Non mi hanno colpito il braccio vero?”. La vita in bilico, il basket nella mente. Tre giorni dopo esce dall’ospedale, al quale donerà 2.5 milioni di dollari come ringraziamento per avergli salvato vita e carriera (diventando successivamente membro del Consiglio d'Amministrazione), torna ad allenarsi e gioca tutte e 82 le partite di regular season, in un’altra stagione mediocre dei Celtics targati Pitino, cacciato a metà stagione per far posto a Jim O’Brien.
Con O’Brien i Celtics tornano a buoni rendimenti, arrivando fino alle Conference Finals dove verranno sconfitti dai Nets.
C’è bisogno di girare il trend (lui non scende mai sotto i 23 punti a partita, ma non serve a molto), e la prima svolta arriva nell’Aprile del 2004, quando la società fa sedere, in panchina, Doc Rivers.
Con lui arriva anche Gary Payton che, insieme al gruppo già presente, con l’aggiunta di qualche veterano e l’implementazione di un buon sistema difensivo, vede i Celtics tornare a discreti livelli, ma sempre fermi al 1° round per mano dei Pacers.
Durante la stagione 2006/2007, con Boston protagonista di un pessimo 24-58, la pazienza di Pierce inizia a scarseggiare, tanto da mettere pressione a Danny Ainge per “ricevere aiuto”, minacciando, in caso contrario, di chiedere una trade. E il G.M. obbedisce: arrivano Ray Allen e, dopo mesi di trattative durissime (non era convinto di giocare per Boston e rifiutava un contratto a lungo termine), Kevin Garnett, che Pierce (che intanto, dal 13 Marzo 2001, dopo aver inflitto una sonora lezione ai Lakers campioni in carica, è diventato “The Truth”, nickname che gli affibbia Shaquille O’Neal a fine partita dicendo ad un giornalista: “prendi nota amico, io sono Shaq, Paul Pierce è La Verità. Dammi retta. Sapevo che sa giocare, ma non sapevo che potesse giocare in questa maniera”) aveva già conosciuto in quel McDonald’s All American High School Tournament del 1995.
Inizia l’era dei “Big Three” con anche, come contorno, Rondo e Perkins, e un pieno di veterani specialisti, che dominano con un 66-16 la Regular Season. Il leader è ancora lui, ma con accanto due campioni e un “sophomore” in costante miglioramento le cose sono più facili. La difesa è impenetrabile e i Celtics passano prima in 7 gare contro Atlanta, con proprio Pierce, autore di 22 punti in Gara 7, come prima opzione. Ma non è qui che Paul farà l’eroe. Al secondo turno arrivano i Cavaliers di un LeBron James ormai in rampa di lancio, e anche con Cleveland si va alla settima. Gara 7 di quella serie verrà ricordata come una battaglia epica, con LBJ da una parte e The Truth dall’altra. La spuntano i biancoverdi, grazie a questa prestazione del nostro protagonista: 41 punti conditi da 5 assist, 4 rimbalzi e 2 recuperi. Neanche i 45 punti di LeBron fermano Paul, con i “Celts” che prendono il treno per le Conference Finals, nelle quali lui e Garnett, in 6 gare, liquidano i Pistons. Si arriva alle Finals, col solito fascino delle sfide tra Lakers e Celtics: proprio Pierce è protagonista di Gara 1, passata alla storia come “Wheelchair Game“. Perkins, in un’azione difensiva durante il terzo periodo, colpisce Paul (che intanto è diventato anche “P-Square”), che cade a terra e viene portato in spogliatoio. Il Garden è in silenzio, ma pochi minuti dopo ritorna in campo, segna due triple e conduce i Celtics a una rimonta vincente. Sarà una delle migliori prestazioni, da infortunato, di un giocatore ai Play Off. Boston ci mette “solo” 6 gare a battere i Lakers, e Pierce è l’MVP del primo titolo Celtico dal 1986.
Due anni dopo i Celtics sembrano pronti al bis, ma la loro avventura si ferma all’ultimo step: gara 7, ancora contro i Lakers, che stavolta si prendono la rivincita.
Nel 2011/2012 sono i Miami Heat a fermare i biancoverdi (intanto, il 7 Febbraio del 2012, sorpassa Larry Bird e diventa il secondo miglior realizzatore ogni epoca dei Celtics), mentre nel 2012/2013 si fermano addirittura al primo turno contro i Knikcs.
Siamo al passo d’addio: gara 6, mancano 28” alla sirena finale, partita ormai in ghiaccio, Rivers richiama in panchina tutti e tre i campioni per una lunghissima standing ovation.
Da quel maledetto 25 Settembre sono passati quasi 13 anni, e mentre piange e abbraccia tutti ripensa a quante ne ha passate, e aver vinto un titolo proprio con Boston e a Boston è un qualcosa che gli resterà dentro per sempre.
Ci prova un altro anno ai Brooklyn Nets, assieme a Terry e Garnett, con pessimi risultati.
Quindi firma per i Washington Wizards: nella serie play off contro i Raptors, in gara 2 e con un piede già verso l’eliminazione, Paul regala l’ennesima giocata da fenomeno.
Wall penetra, scarica per lui che lascia andare la tripla: solo rete. “That’s why they got me here”.
Lui è li per quello. Quei Wizards andranno fuori al turno successivo contro gli Atlanta Hawks, siamo ai titoli di coda.
Si ricongiunge a Doc Rivers con addosso la canotta dei Clippers, nella sua Los Angeles, nella speranza di colmare il vuoto che la franchigia ha nel ruolo di ala piccola (nel Maggio del 2017 supera John Havlicek e diventa il miglior realizzatore di sempre nella storia dei Celtics, e attuale 17° nella storia della NBA, con 26.397 punti complessivi) ma intanto ha deciso di ritirarsi al termine di quella stagione (2016/2017), e lo farà da giocatore dei Boston Celtics.
Il 17 Luglio 2017 firma un contratto simbolico da un giorno coi biancoverdi.
L’11 Febbraio 2018 la sua numero 34 viene issata sul soffitto del Garden, li resterà per sempre, nessuno potrà più indossarla.
Il 12 Settembre 2021 viene introdotto nella Hall of Fame.
La storia di Boston, la storia della NBA, la storia di un ragazzo che ha rischiato la vita per pochi centimetri.
Ha giocato 1.392 partite con addosso le cicatrici di quella notte, e quando l’abbiamo visto correre, tirare, esultare, incitare, buttarsi a terra su una palla vagante, ci siamo ricordati di quel 25 Settembre 2000, e a che cuore immenso abbia Paul Pierce.
“Sono nato nel ghetto e sono riuscito ad andare al college. Ho ricevuto 12 pugnalate ai polmoni, ma mi hanno salvato. Dopo tutto questo, sono sicuro che i miracoli possono accadere. Forse perché non ho mai smesso di sperare”.
Only The Truth…Always The Truth.
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