mercoledì 1 aprile 2020

Episode Seven: il Diavolo di Sebenico


“Un mito è un modo per dare un senso a un mondo senza senso. I miti sono modelli narrativi che danno un significato alla nostra esistenza.” [Rollo May]
Il protagonista del nostro settimo episodio solo così possiamo catalogarlo, un mito.
Un qualcosa che non può essere spiegato con risultati o statistiche, per quanto eccezionali.
Nel suo gioco, nella sua personalità, c’era qualcosa che trascendeva la pallacanestro, che ti spediva in un’altra dimensione.
Le sue non erano partite, ma sfide continue agli avversari e a sé stesso.
Il suo passaggio ha aperto impensabili scenari a tanti altri cestisti che sono arrivati dopo di lui.
Lui, che di nome faceva Drazen, e di cognome faceva Petrovic.

Nasce a Sebenico (Sibenik in lingua originale) il 22 Ottobre 1964, papà Jovan (detto Jole) è un funzionario di polizia e mamma Biserka lavora nella biblioteca della futura città croata.
Non sembra destinato alla gloria sportiva perché, dopo pochi mesi, gli viene diagnosticata una lussazione congenita alle anche che lo costringe a trascorrere i primi anni di vita con un tutore per far si che le ossa si sviluppino in maniera normale, cui seguirà un problema alla colonna vertebrale che sconsiglia qualsiasi attività agonistica (ha 11 anni).
Il quadro lo completa un soffio al cuore che viene fuori da un altro ciclo di analisi al quale viene sottoposto.
Mamma e papà tentano con la musica, interesse per la materia zero, anche perché, col passare degli anni, e con la logica crescita, i dolori a schiena e anche sono spariti, e con essi anche i problemi cardiaci.
Intanto guarda giocare suo fratello Aleksandar, detto “Aza”, più grande di lui di 5 anni e stella locale (attualmente è il commissario tecnico della Nazionale Brasiliana).
Lo idolatra totalmente, già passargli il pallone durante i suoi esercizi di tiro è una vittoria, anche perché, probabilmente, suo fratello maggiore sarà forse il suo unico modello, lui che di giocatori ne ha ammirati tanti, ma è sempre stato convinto di essere lui il modello di sé stesso.
Il primo allenamento ufficiale, quello con la squadra locale del Sibenka, risale al 1977. Ben presto comincia ad allenarsi molto più degli altri compagni di squadra. La pallacanestro diventa la sua vita, tanto che si allena prima della scuola e continua a darsi da fare anche dopo gli allenamenti giornalieri della sua squadra.
E’ ossessivo e a tratti compulsivo. Alle 5:30 del mattino è in palestra per due ore di esercitazione individuale (il custode gli ha lasciato ormai le chiavi), il pomeriggio doppia seduta di allenamenti con almeno due formazioni giovanili diverse, a casa flessioni, addominali e dorsali, e riesce a trovare tempo anche per studiare.
A Sebenico la voce sui ritmi di questo ragazzo e sulla sua routine si è sparsa, e il suo talento viene ben presto notato da tutti.
Dopo appena due anni comincia a giocare per la squadra cadetti, ma di pari passo già si allena con la compagine seniores. Comincia pure a giocare per il Sibenka e il 29 Dicembre 1979, soltanto due mesi dopo aver festeggiato il suo 15° compleanno, segna i suoi primi punti per la prima squadra, contro l’OKK Belgrado.
Sta crescendo sotto l’ala protettiva di Zoran Slavnic, detto “Moka” (verrà a giocare in Italia per la Juve Caserta 1982/1983), che lo spinge a creare un clima psicologico da partita già in allenamento, con provocazioni continue, sia verbali che col pallone in mano. Drazen ascolta, trattiene e apprende, come si vedrà anche in futuro.
Nell’estate del 1980 (nel Gennaio dello stesso anno affronta, per la prima volta, suo fratello in una partita ufficiale) milita nella squadra della Jugoslavia agli Europei Under 16 in Turchia. Per lui arriva la prima medaglia importante, un bronzo. Nel 1981 partecipa con la squadra dei cadetti della Jugoslavia ai Campionati dei Balcani dove vince l’oro, nonché agli Europei dove però la nazionale deve accontentarsi del quinto posto (lui è comunque il miglior realizzatore della manifestazione con 32.4 punti di media e, soprattutto, il 22 Agosto sfida un certo Arvydas Sabonis. Da li nascerà una delle più intense ed emozionanti rivalità nella storia dello sport).
Senza dimenticare la chiamata, nel Novembre del 1981, per un tour negli Stati Uniti, dalla Nazionale Jugoslava senior (a quel tempo allenata da Bogdan Tanjevic, uno che di talento se ne intendeva), tour nel quale non vede tanto il campo, ma ci lascia due episodi di assoluto rilievo.
Contro Kentucky si trova a partire in quintetto ("Boscia" decide di far rifiatare i titolari), e per la prima volta gioca da playmaker, dimostrando di saper già guidare una squadra di alto livello, pur segnando soli 4 punti.
L'altro riferimento è all'ultima sfida di quel tour, contro la leggendaria North Carolina dell'altrettanto leggendario Dean Smith. Drazen gioca 16 minuti contro una squadra che, oltre a gente del calibro di James Whorty e Sam Perkins, schiera un rookie che risponde al nome di Michael Jeffrey Jordan: è la prima, e non sarà l'ultima come vedremo più avanti, sfida tra Petrovic e "His Airness".
Ormai ha il posto fisso in squadra al Sibenka, ha appena 17 anni e, a suon di prestazioni realizzative importanti, trascina la squadra per due anni di fila in finale di Coppa Korac, che perderanno entrambe le volte contro il Limoges.
Nel mezzo una notte che a Sebenico ancora ricordano, in tutti i sensi: 9 Aprile 1983, gara 3 di finale scudetto contro il Bosna Sarajevo, finisce 83-82, Sibenka campione di Jugoslavia in un "Badelkin" (il palazzo dello sport della città) che, ufficialmente "omologato" per contenere 2.500 spettatori (1.500 i posti a sedere), quella sera ne arriva ad ospitare oltre 4.000, con gente arrampicata fino ai cornicioni sotto le vetrate. Si contano appena 8 agenti delle forze dell'ordine, almeno la metà dei quali più intenta a tifare che a mantenerlo l'ordine.
2/2 dalla lunetta a tempo praticamente scaduto dopo aver subìto fallo mentre tirava per la vittoria…devo dirvi chi?
Parte la grande festa per le strade di Sebenico con Petrovic nei panni dell’eroe indiscusso. La festa non dura nemmeno un giorno, quasi subito arriva la doccia fredda. Già il giorno seguente la Federbasket annulla la partita, accoglie il ricorso del Bosna che riteneva errato il fischio che ha permesso al Sibenka di vincere e impone di disputarne una nuova in campo neutro, nel capoluogo della Vojvodina. I giocatori e la squadra, con tanto di coppa e medaglie ormai nel carnet, decidono di non partire per Novi Sad. Si ritengono i vincitori morali, sono convinti di aver meritato il successo, a prescindere dal verdetto dal sapore politico della Federbasket. Alla fine il titolo viene tolto al Sibenka.
Per la squadra della sua città Petrovic gioca ancora poche partite, perchè viene chiamato a prestare il servizio militare. Salterà l'intera stagione 1983/1984 per assolvere agli obblighi di leva, ma di certo non lascerà il basket, perchè giocherà nel "Mornaricki Nastavni Centar" (il centro di addestramento navale di Pola, più semplicemente MNC), dall'idea (geniale) di Slobodan Jovanovic (ex allenatore, arbitro, ufficiale di campo e dirigente).
Mentre i giocatori sono lontani dalle squadre di appartenenza per i 12 mesi di leva, lui li allenerà, grazie ad uno status di "marinai/giocatori" che gli farà acquisire parecchie libertà. In questo modo i ragazzi rimarranno in forma, non perderanno la confidenza con pallone e canestro e potranno tornare nelle loro squadre in condizioni accettabili.
Drazen giocherà partite, in sostanza, "amatoriali", ma otterrà il nullaosta dalla MNC per disputare gli Europei francesi del 1983 con la maglia della Jugoslavia, torneo piuttosto anonimo per i "plavi" (7° posto finale e fine della prima generazione d'oro del basket slavo, quella dei vari Radovanovic, Kikanovic, Dalipagic e Cosic) e per Petrovic, ricordato quasi esclusivamente per la mega rissa da "saloon" nell'ultima partita del girone eliminatorio contro l'Italia, che quell'Europeo andrà poi a vincerlo.
Il periodo "in forza" all'MNC (che vedrà i "militari" suonarle di santa ragione a tutti, anche squadre di Yuba Liga come Olimpia Lubiana, Rijeka e Rabotnicki, "rischiando" addirittura di vincere la Coppa di Jugoslavia [essendo una squadra estremamente competitiva, l'ineffabile Jovanovic riesce a farla inserire in quella edizione della Coppa Nazionale], perdendo solo in semifinale contro la Jugoplastika) ci lascia anche un piccolo particolare: per la prima volta (precisamente il 29 Dicembre 1983) torna da avversario a Sibenik e, ovviamente, non ha cuore tenero per la sua ex squadra e per la sua città natale, segnando 42 punti nella vittoria dei suoi.
Ancor prima di indossare la divisa ha la possibilità di cambiare casacca. Tutte le più forti e blasonate squadre della Jugoslavia gli fanno una corte spietata. A farsi avanti è il Bosna di Sarajevo, nonché la Stella Rossa e il Partizan di Belgrado. Alla fine la scelta cade sul Cibona Zagabria (contratto da 1.200 dollari al mese, cui si aggiunge la proprietà di un bar e l'uso di un appartamento in centro, che però su esplicita richiesta di Drazen sarà invece preso in prossimità del campo da gioco, in modo da potersi allenare quando vuole), dove sarà compagno di squadra di suo fratello “Aza”. Nell’estate del 1984, prima di passare tra le file della compagine zagabrese, Drazen Petrovic partecipa, con la nazionale, ai Giochi Olimpici di Los Angeles: la Jugoslavia vince la finale per il terzo posto e conquista la medaglia di bronzo. Il campionissimo sebenzano indossa subito dopo la maglia del Cibona; per lui e per la squadra della futura capitale croata inizia un periodo fantastico. In quattro anni vincono praticamente tutto, sia in Jugoslavia che all’estero (due Coppe dei Campioni, una Coppa delle Coppe, tre Coppe Nazionali e una Yuba Liga).
Lui è sensazionale, termina un paio di stagioni ad oltre 43 punti di media, è sublime, delizioso e spavaldo allo stesso tempo, si guadagna il secondo soprannome che lo accompagnerà in tutta la sua carriera (il primo è quello del titolo di questo episodio), il “Mozart dei canestri”.
Una delle squadre che, in quegli anni, è spesso caduta sotto i colpi di Petrovic è il Real Madrid, che nell’estate del 1988, dopo avergli visto conquistare l’argento alle Olimpiadi di Seoul (l’oro andrà all’Urss del solito Sabonis), decide di rompere gli indugi e portarlo alla “Caja Blanca”.
E qui ci rendiamo conto ulteriormente di uno dei fondamentali della sua vita sportiva, ovvero sfidare gli avversari, soprattutto quelli molto forti, quelli che ammira, e che trova ulteriore gusto a sconfiggere.
Ciò ci porta ad una notte di Marzo del 1989, ad Atene, con in palio la Coppa delle Coppe, la diapositiva di quella sua unica stagione madrilena (assieme alla vittoria della Coppa del Re, dove in finale ne segna 28 contro il Barcellona)
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Di fronte c’è uno che, se in serata, non ci puoi negoziare: si chiama Oscar Daniel Bezerra Schmidt, e ha guidato la Snaidero Caserta, che solo 6 anni prima era in A2, a quella inaspettata finale.
Oscar segnerà 44 punti, un ventitreenne Nando Gentile ne metterà 34, oltre 3.000 casertani invasero l'allora Eirinis Khai Philias del Pireo per sognare l'impresa, ai piedi della Reggia quella partita ancora se la ricordano.
Petrovic è inarrestabile: 62 punti personali, più della metà dei 117 che i madridisti metteranno a referto, una partita che è stata consegnata all’Unesco del gioco e che verrà ricordata, per sempre, come la “Partita del secolo”.
Ormai l’Europa è un vestito troppo stretto in cui stare, la competitività di Drazen ha bisogno di altri stimoli. Potrebbe restare e continuare a dominare, ma sceglie di andare ad esplorare quel mondo oltre Oceano, giusto per far vedere anche a loro chi sia il più forte. In NBA lo aspetta Portland, che nel 1986 lo ha selezionato come 60° scelta al Draft ed ora è pronta a prenderselo, in un’estate che vede attraversare il globo anche da altri due che lui conosce bene, Dino Radja e Vlade Divac: il primo è croato come lui, il secondo è il suo migliore amico. Insieme sono probabilmente una delle migliori espressioni mai avute dal basket jugoslavo (ribattezzati la seconda generazione d'oro del basket jugoslavo), nella grande famiglia ancora unita che, con altri calibri come Vrankovic, Paspalj, CuturaKukoc e l'allora diciannovenne Danilovic, si è presa l’oro europeo in casa propria, nel 1989, sotto la guida di Dusan Ivkovic, dominando il torneo e giocando una pallacanestro avanti di forse 30 anni (Petrovic gioca un Europeo da 31.4 punti di media, tirando col 76% da 2 e col 70% da 3, ovviamente MVP della kermesse).
C’è sangue serbo e croato in quello spogliatoio, oltre a puro distillato di talento. Caratteri forti, mani di velluto. Si va d’accordo, si gioca insieme. Il basket placa tutto, ma non sempre ci si ama. Tra Petrovic e Divac è diverso, lì è amicizia vera, nonostante il primo sia croato e cattolico, il secondo serbo e ortodosso. Il giorno e la notte che si fondono insieme, tra il Mozart dei canestri e il gigante che divora due pacchetti di Marlboro al giorno.
Mentre Drazen è volato in Oregon, Vlade è finito sulla sponda gialloviola di Los Angeles. Stessa costa, migliaia di chilometri di distanza. Ma mai come in quel periodo i due si ritrovano a essere fondamentali l’uno per l’altro. Lo è soprattutto Divac per Petrovic, perché al di là delle convinzioni con cui è partito, la vita di Mozart non è così morbida da masticare sui parquet di chi la pallacanestro se l’è inventata. L’ex ragazzo di Sibenik plana in uno spogliatoio dove si cambiano Clyde Drexler, Cliff RobinsonBuck Williams e, soprattutto, Terry Porter (che per la cronaca sarebbe dovuto andare via ma a cui venne rinnovato il contratto per altri 2 anni), il quale occupa il suo stesso ruolo. Parla una lingua cestistica semplicemente diversa, quella statunitense fatica a metabolizzarla. Finisce fin troppo spesso in panchina e alcune volte neanche si alza. Per uno che il campo non lo lasciava mai se non per sfinimento è come ritrovarsi su un altro pianeta (l'unica volta che parte in quintetto, e può giocare minuti di rilievo anzichè il solito "garbage time", segna 23 punti, per dire...). È qui che Divac capisce l’amico. Non passa sera senza che il telefono di Drazen squilli e immancabile si senta salutare dal vocione serbo, che lo rassicura, lo tranquillizza. Arriverà anche il suo momento, come per Vlade in California e Dino a Boston. Sono parole fondamentali. In più Petrovic sa che il suo talento verrà fuori. Più tempo passa in panca, più si ferma in palestra alla fine di ogni sessione di allenamento. Anche perché in estate c’è il mondiale in Argentina. Drazen c’è e non potrebbe essere altrimenti. Con lui, l’amico fidato e un’altra bella banda di talenti. Vincere è quasi un diktat, anche se nel girone la Jugoslavia si lascia superare da Porto Rico, arriva seconda e in semifinale trova gli Stati Uniti di Mike Krzyzewski. Mozart ne piazza 31 sui 99 totali della squadra. Si vola in finale. Lì neanche la solita (ancora per poco) Unione Sovietica (orfana degli ormai lituani Sabonis e Marciulonis) riesce a tenere la forza d’urto slava. Finisce 92-75. Una Nazione che sta morendo è sul tetto del Mondo. La Jugoslavia si ritrova unita per una delle ultime volte. Sarà invece l’ultima per Drazen e Vlade. Mentre vanno sul podio, un tifoso croato (che si rivelerà essere tale Tomas Sakic, che riesce ad ottenere un permesso da fotografo per assistere alla partita a bordocampo) allunga verso Divac la bandiera del proprio paese. Il gigante la allontana, ricorda che quella è la Jugoslavia, non la Croazia (in realtà, come verrà svelato anni dopo, la bandiera non è della Croazia, ma degli "ustascia", un gruppo estremista della destra croata). Petrovic la prende male. Dopo la coppa non gli rivolgerà più la parola (a tal proposito vi consiglio la visione del documentario “Once Brothers”), anche se ci sono altri motivi, e ben più gravi.
Nel Settembre del 1991 Sebenico venne bombardata dall'esercito serbo, e molti degli amici di Petrovic morirono o dovettero trovare riparo nei rifugi. Venendo dalla negativa esperienza di Portland aveva accumulato ulteriore tensione personale e, dopo il bombardamento della sua città natale, decise di tagliare ogni rapporto con chiunque provenisse dalla Serbia, incluso Divac.
Drazen torna in America con una medaglia in più e un migliore amico in meno. Ai giornalisti che lo incalzano sul tema risponde a mezza bocca, ma sul parquet iniziano a far parlare le sue prestazioni. Non a Portland però, ma nel New Jersey, dove i Blazers lo hanno lasciato andare senza battere ciglio. Ma è proprio nei Nets che Petrovic rinasce. Trascorre l'intera estate del 1991 a lavorare col preparatore della squadra sui suoi presunti punti deboli (velocità di piedi, resistenza, esplosività, da aggiungere ad equilibrio, riflessi ed elevazione), oltre che sulla difesa e sulla mano sinistra, e questo gli impedisce di essere a Roma il 29 Giugno di quel 1991, quando l'ultima Jugoslavia unita trionfa nell'Europeo italiano (canto del cigno di un gruppo che, in 4 anni, ha vinto un Mondiale Under 19, un argento olimpico, due ori Europei e un oro Mondiale).
Coach Bill Fitch gli concede finalmente fiducia, Drazen la ripaga con oltre 20 punti di media in stagione. Cercava un suo posto nella NBA e finalmente l'ha trovato. Il pubblico di Meadowlands lo ama da subito e il "Petro...from 3...got it!" scandito dal telecronista Spencer Ross diventa un must tra i tifosi, anche perchè quella palla, nel canestro, da dietro la linea dei 3 punti, ci va molto spesso. Anche gli avversari iniziano a rispettarlo, grazie a prestazioni come quelle contro gli Houston Rockets di Vernon Maxwell, che aveva osato provocarlo. “Deve ancora nascere un europeo bianco che mi faccia il culo”, gliene metterà 44 sul muso, suo "career high" in NBA. Senza dimenticare i 39 punti che realizza, contro i Boston Celtics, in un'epica rimonta in trasferta dal -19 datata 13 Marzo 1992 ("Oh oh, another tough shot for Petro: he's a Celtic for one day!", grideranno i telecronisti quella sera), o i 40 che mette a referto in gara 1 dei Play Off del '92 contro Cleveland, quando nessuno dei Cavs riesce a marcarlo.
Ne riconosceranno ancora di più il carattere qualche mese dopo, a Barcellona. Giochi Olimpici, gli Usa decidono di giocarsi la carta Dream Team. Il Mondo ormai era cambiato, Petrovic per la prima volta è un croato che gioca per la Croazia, al servizio di coach Petar Skansi. Ne piazza 28 in semifinale e 24 in un atto conclusivo quanto mai così scontato, ma dove lui non abbassa la testa neanche davanti a Michael Jordan, e la sua squadra cade in piedi, per 117-85. Contro i migliori mai visti, era un distacco da festeggiare.
Quando torna negli States, la carriera di Drazen sembra ormai una discesa. La media punti aumenta e la leadership pure. Non solo diventa il primo europeo a venire inserito in uno dei tre migliori quintetti stagionali, ma a fine stagione decide pure di rimanere Free Agent. Senza contratto, vuole una squadra da titolo, e se la meriterebbe. Ha quasi 29 anni ed è nel pieno della sua vita e carriera.
Cerca di non pensare al futuro, ma agli Europei che si disputeranno di li a poco in Germania, dove la sua Croazia, che oltre a lui annovera gente del calibro di Radja, Kukoc, Vrankovic, Komazec e Tabak, sarà sicuramente protagonista.
Siamo a Wroklaw, in Polonia, torneo di qualificazione: nel girone iniziale tre passeggiate contro Romania, Estonia e Macedonia, a seguire altre tre vittorie in carrozza contro Lettonia, Bielorussia e Ucraina, con l’inutile finale del 6 Giugno 1993 contro la Slovenia, partita nella quale, su una gamba (ha problemi ad un ginocchio) segna 30 punti.
Sarà la sua ultima partita di pallacanestro.
Contrariamente al Drazen degli anni prima, questo del 1993 vuole anche costruirsi una vita al di fuori del basket. E nella sua vita entra a far parte Klara Szalanty, modella di origine ungherese e anche giocatrice di basket in Germania.
E’ un po’ che non si vedono, l’occasione è proprio dopo Wroklaw.
Il 7 Giugno 1993 l’aereo della Nazionale Croata fa scalo a Francoforte, lui saluta tutti assicurando che alla ripresa degli allenamenti sarà regolarmente a Zagabria.
Klara è venuta a prenderlo in aeroporto per andare a Monaco, dove la ragazza abita, per stare insieme un giorno e mezzo e da li ripartire per Zagabria.
Lei si mette alla guida della Golf rossa, Drazen è distrutto dalla fatica e si siede al suo fianco, addormentandosi quasi subito.
Piove a dirotto, dopo un dosso la Golf si trova davanti un camion fermo, che Klara non riesce ad evitare finendoci sotto. Drazen viene sbalzato fuori da finestrino e muore sul colpo.
Sono le 17:20, l’ora esatta è segnata sull’orologio del campione, fermatosi dopo l’impatto.
Un anonimo lunedì, poche settimane prima di un Europeo dove tanto per cambiare sarebbe sicuramente stato protagonista. Forse era troppo stanco per pensare, lo avesse fatto anche quel giorno magari staremmo parlando di altro.
Anche perché chiunque abbia visto quella scena afferma che se avesse guidato lui difficilmente oggi non sarebbe tra di noi.
Venerdì 11 Giugno 1993 il mondo piange il grande Drazen, il suo funerale ha un seguito popolare e mediatico incredibile. La bara troppo piccola per contenerlo, un intero paese in lacrime, senza più il suo figlio prediletto, senza più bandiera, dopo due anni di guerra e appena tre di indipendenza.
Il giovane uomo. Il ragazzo. La stessa fine.
La sua salma riposa al Mirogoj di Zagabria, il 7 Giugno, in Croazia, da quel momento sarà lutto nazionale.
Riceve tantissimi riconoscimenti, gli vengono intitolate piazze, strade e palazzetti (il suo Cibona Zagabria ora gioca al Drazen Petrovic Basket Hall), i Nets ritirano la sua numero 3 e nel 2002 entra a far parte della Hall of Fame.
Nel 2006 sua madre Biserka ha spinto fortemente per l’apertura di un museo a lui dedicato, che è diventato rapidamente una delle principali attrazioni turistiche di Zagabria.
Chi l’ha visitato mi ha detto che ci si trova davanti all’orologio fissato alle 17:20, alla carta d’identità scaduta proprio quel maledetto 7 Giugno 1993, alle pagelle scolastiche, le foto, i palloni, le maglie e i trofei.
Drazen Petrovic è stato uno dei giocatori più emozionanti della storia del basket, un modello ispiratore, un’icona, uno che ha fatto sognare tanti ragazzi europei.
Un talento per giocare a pallacanestro sovradimensionale, irresistibile, talvolta irridente.
Vederlo giocare era semplicemente poetico.
A pochi mesi dalla morte, Biserka si reca al cimitero. Un uomo anziano si avvicina rispettosamente con il nipote. Accende un cero. "Non essere triste. Tu l'hai messo al mondo, ma lui è di tutti noi".
E, come avrebbe detto Federico Buffa, “ricordatevi sempre, quando vedete una partita NBA con un grande non americano sul terreno di gioco, che la strada l’ha asfaltata Drazen.”
Sempre con noi.









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