“Osservate con quanta previdenza la natura, madre del
genere umano, ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia. Infuse
nell'uomo più passione che ragione perché fosse tutto meno triste, difficile,
brutto, insipido, fastidioso.” [Erasmo da Rotterdam]
Follia certo, ma anche talento, cattiveria agonistica, energia dispersiva, scintille incendiarie, eleganza, anarchia, genialità.
Rabbia, tanta rabbia, così ben rappresentata da quelle treccine, che significano black…che significano minaccia.
Il tutto concentrato in appena 180 cm.
Siamo ad Hampton, sud della Virginia, città famosa per ospitare il Langley Research Center, il più vecchio centro della NASA, tutt’ora esistente.
Ann ha 15 anni e invita a casa sua Allen Broughton, noto più alle forze dell’ordine che ai teenagers del posto. Ha quella classica aria da bello e dannato che la attrae, ma è sostanzialmente un bullo irrispettoso della legge. Trascorrono la notte insieme, senza prendere le dovute precauzioni.
Peccato che, oltre ad essere un mezzo criminale, Allen Brougton sia anche un codardo, e appena saputo della gravidanza si dà alla fuga, facendo perdere ogni traccia.
Ann, che nel frattempo ha abbandonato la scuola, quella gravidanza la porterà a termine, e il 7 Giugno 1975 dà alla luce un bimbo, che chiamerà, nonostante tutto, col nome del padre.
La ragazza, anche in cerca di protezione, inizia a frequentare altri brutti ceffi, tutti coinvolti in giri non proprio nobili.
E’ in questo tipo di ambiente che cresce, e si forgia, quel fenomeno che risponde al nome di Allen Iverson.
Ann lo vuole giocatore di basket, lui sembra avere una naturale propensione per lo sport di contatto, nonostante sia piuttosto mingherlino.
A 9 anni la madre gli regala il suo primo paio di scarpe per giocare a pallacanestro, ma a lui non interessa. Lui vuole battere gli avversari col contatto fisico, con la forza; è arrabbiato con tutto e tutti e solo il football sembra rappresentare quella valvola di sfogo per tentare di controllare quel fuoco interiore.
Fortuna vuole che alcuni suoi amici, che giocano con lui a football, giocano anche nella locale squadra di basket (comune in America che i ragazzi, a quell’età, pratichino più sport contemporaneamente), e quindi inizia a frequentare palestre e campetti.
Controlla tutto Tony Clarck, che per lui è quasi un padre che cerca di tenerlo lontano dai guai, che però viene trovato misteriosamente assassinato.
Il piccolo Allen, che intanto vede mamma Ann riaccasarsi con tale Michael Freeman (che le darà altri due figli prima di essere arrestato per spaccio), subisce tutto passivamente.
Le difficoltà economiche sono pesanti e, dopo l’ennesima notte passata digiuno, “Bubba Chuck” (che è il suo nickname ad Hampton) decide di far contenta sua madre, giocherà a basket pur non lasciando il football.
Il suo primo coach si chiama Mike Hailey, in quel di Bethel High School, che fa impazzire perché quando si tratta di studiare e frequentare lui scompare misteriosamente.
Amore e odio, come tutti quelli che hanno allenato quel talento rabbioso ma straripante. Allen vince il titolo sia con la squadra di basket che con quella di football, una cosa che, nell’intero stato della Virginia, non si è mai visto e mai si vedrà, almeno fino ad oggi.
Quindi adesso la strada è tutta in discesa vero? Andrà al college e poi diventerà un professionista e tutti vivranno felici e contenti.
Niente di tutto ciò, perché niente nella vita di Iverson sarà in discesa.
Il 14 Febbraio 1993, in un salone da bowling, Allen inizia a scambiarsi “complimenti” con dei ragazzi bianchi. Dalle parole si passa ai fatti in pochi attimi, e quel salone diventa teatro di una rissa stile Achei contro Troiani. Vola una sedia che colpisce in testa una ragazza e pare che sia stata lanciata proprio da lui, e anche se non fosse vero vengono comunque accusati come responsabili solo lui e un amico.
La condanna arriva in fretta ed è di 5 anni di carcere, ha 17 anni e la sua vita sembra già davanti ad un bivio. Trascorre 5 mesi al Newport News City Farm, una funzione correttiva a Newport News, ma per una volta il destino gli sorride e dal governatore della Virginia arriva la grazia.
“Ho dovuto sfruttare l'esperienza del carcere come qualcosa di positivo. Andare in prigione e mostrare delle debolezze fa sì che tutti gli altri ti prendano di mira. Non ho mai mostrato alcuna debolezza. Ho continuato ad essere forte fino a quando non sono uscito". (Nota a margine: questo incidente e il suo impatto sulla comunità vengono descritti nel documentario “No Crossover: il processo di Allen Iverson”).
Mettete la sua infanzia, le morti premature, l’arresto del patrigno, le difficoltà economiche e 150 giorni in una prigione. L’effetto è devastante, dentro ha un inferno pronto ad esplodere.
Ma il secondo bacio dalla fortuna arriva dalla Nike, che lo invita ad una partita nella quale i migliori talenti americani possono strappare una promessa ad uno scout collegiale.
Kentucky e Georgetown sono in pole: nel primo caso Rick Pitino (allenatore dei Wildcats) è uno vecchio stampo e non tollera un ragazzo con quella fedina penale, nel secondo caso, ovvero gli Hoyas, la tolleranza è ben diversa, perché lì allena John Thompson che, da ragazzo, ha visto più o meno le stesse cose di Allen, e forse per questo decide di dargli una possibilità.
Le difficoltà temprano e formano, non spezzano.
I due anni a Georgetown sono un qualcosa che, da quelle parti, si è visto poche volte: è una macchina da punti, assist e giocate di fisico e tenacia. Il primo anno è “Rookie of the Year”, il secondo anno è inserito nel quintetto All America, mantenendo una media di 23 punti e quasi 5 assist a partita.
La sua vita è finalmente in discesa, anche se mamma Ann continua a passarsela male.
Eccolo il bivio, quello decisivo, ed imbocca la strada dell’eleggibilità al Draft NBA del 1996: diventare professionista gli permetterebbe di guadagnare i soldi necessari per mantenere quella donna che, neanche sedicenne, l’ha messo al mondo.
Thompson non gli dice nulla perché comprende più di ogni altro la natura di quell’esigenza.
Lo chiama Philadelphia (prima scelta assoluta), anzi lo adotta, perché resterà per sempre un figlio della città dell’amore fraterno.
Per la prima volta nella storia un rookie segna 40 punti per 5 partite consecutive, diventa il più giovane giocatore di sempre a realizzare 50 punti in una partita e, il 12 Marzo 1997, manderà al bar tale Michael Jordan con il suo classico “crossover”, una giocata da tramandare ai posteri.
I 76ers non decollano, lui si, perché è “Rookie of the Year” per la stagione 1996/1997.
La crescita è esponenziale, l’anno successivo è capocannoniere della Lega e i 76ers si qualificano addirittura per i Play Off. Quella squadra la allena Larry Brown, col quale non c’è empatia, si arriva spesso al confronto che rischia di sfociare nel classico “o lui o io”.
Rischia di essere ceduto ai Clippers ma, per fortuna, la trattativa naufraga, anzi, diciamo che quasi non nasce, perché Allen si mette in riga e tende una (timida) mano al suo allenatore.
La stagione 2000/2001 è l’apoteosi, un qualcosa che io difficilmente ho visto nella mia vita da appassionato di basket: oltre 31 punti a partita, MVP dell’All Star Game e della Regular Season, ai Play Off eliminano Pacers, Raptors e Bucks (memorabile l’aneddoto di gara 7 al Wells Fargo Center. Manca poco più di mezz’ora all’inizio della partita e Iverson non si trova, è sparito. E’ comodamente seduto a uno dei Mc Donald’s dell’arena mentre mangia un paio di cheeseburger. Per la cronaca segnerà 44 punti, giocando come uno che li sta digerendo), fino ad arrivare alle Finals, dove li aspettano i Lakers di Kobe e Shaq, che sono arrivati a quell’atto finale in sole 11 partite (tre “sweeps” a Blazers, Kings e Spurs).
Quella gara 1 a Los Angeles è qualcosa da raccontare nei secoli. Più della vittoria dei 76ers allo Staples Center dopo un over time, più dei 48 punti del ragazzo di Hampton, passerà alla storia per la giocata di Allen su Tyronn Lue (canestro in allontanamento dall’angolo in faccia al futuro allenatore dei Cleveland Cavaliers, per poi scavalcarlo una volta che quest’ultimo era a terra), una giocata che è diventata l’emblema degli anni 2000, una delle più rappresentative immagini di Davide che batte Golìa.
Le parole, come spesso accade in queste situazioni, le lascio alla vittima: “sono entrato quando aveva 36 punti con 5 minuti da giocare nel terzo quarto. Di mia iniziativa ho cercato di difendere su di lui. Era molto difficile cercare di limitarlo, ha cominciato a chiamarmi per numero, mi veniva a cercare per segnarmi in faccia ad ogni possesso.”
I Lakers domineranno le successive 4 partite portando a casa il titolo, ma poco conta, il mondo è ai piedi di “AI3”.
Ci sarebbe da menzionare il passaggio ai Denver Nuggets, le esperienze a Memphis, Detroit ed Istanbul e il ritorno a Philadelphia (con 19.931 punti è il miglior realizzatore della storia dei 76ers, davanti ad un certo Julius Erving, che il 1° Marzo 2014 ritireranno, ufficialmente, la sua maglia numero 3), ma io, come credo anche voi, mi sono innamorato di un altro Allen Iverson, quello che ha mandato al bar Michael Jordan, quello che ha scavalcato e calpestato Lue, quello che dominato questo gioco pur arrivando a stento a 180 cm di altezza e 75 kg di peso (50 di cuore e 25 di orgoglio).
Quello che, il 4 Aprile 2016, è stato inserito nella Hall of Fame.
E’ stato un punto di riferimento per tanti giocatori che oggi sono di rilievo in NBA, è stato un esempio per tanti ragazzi nati nel ghetto e per tanti atleti talentuosi ma che hanno rischiato di dilapidare il loro patrimonio perché non supportati da un carattere notevole.
E’ stato semplicemente lui, per tutta la sua carriera, ed è stata la sua più grande forza, oltre che il suo più grande limite.
Quando ha parlato ha sempre detto cose forti e d’impatto, ma c’è una dichiarazione che ci fa capire ulteriormente chi è.
“Non voglio essere Jordan, non voglio essere Bird, Isiah, non voglio essere come questi ragazzi. Voglio guardarmi allo specchio e dire: questo sono io, questo è Allen Iverson, questo è il modo di fare basket. Ho giocato a modo mio.”
Nessuna voglia di emulare o imitare, nessuna voglia di ripercorrere storie già vissute, ma consapevolezza e sicurezza di aver sempre fatto tutto a modo suo.
Because I'm not the question...I'm The Answer!
Follia certo, ma anche talento, cattiveria agonistica, energia dispersiva, scintille incendiarie, eleganza, anarchia, genialità.
Rabbia, tanta rabbia, così ben rappresentata da quelle treccine, che significano black…che significano minaccia.
Il tutto concentrato in appena 180 cm.
Siamo ad Hampton, sud della Virginia, città famosa per ospitare il Langley Research Center, il più vecchio centro della NASA, tutt’ora esistente.
Ann ha 15 anni e invita a casa sua Allen Broughton, noto più alle forze dell’ordine che ai teenagers del posto. Ha quella classica aria da bello e dannato che la attrae, ma è sostanzialmente un bullo irrispettoso della legge. Trascorrono la notte insieme, senza prendere le dovute precauzioni.
Peccato che, oltre ad essere un mezzo criminale, Allen Brougton sia anche un codardo, e appena saputo della gravidanza si dà alla fuga, facendo perdere ogni traccia.
Ann, che nel frattempo ha abbandonato la scuola, quella gravidanza la porterà a termine, e il 7 Giugno 1975 dà alla luce un bimbo, che chiamerà, nonostante tutto, col nome del padre.
La ragazza, anche in cerca di protezione, inizia a frequentare altri brutti ceffi, tutti coinvolti in giri non proprio nobili.
E’ in questo tipo di ambiente che cresce, e si forgia, quel fenomeno che risponde al nome di Allen Iverson.
Ann lo vuole giocatore di basket, lui sembra avere una naturale propensione per lo sport di contatto, nonostante sia piuttosto mingherlino.
A 9 anni la madre gli regala il suo primo paio di scarpe per giocare a pallacanestro, ma a lui non interessa. Lui vuole battere gli avversari col contatto fisico, con la forza; è arrabbiato con tutto e tutti e solo il football sembra rappresentare quella valvola di sfogo per tentare di controllare quel fuoco interiore.
Fortuna vuole che alcuni suoi amici, che giocano con lui a football, giocano anche nella locale squadra di basket (comune in America che i ragazzi, a quell’età, pratichino più sport contemporaneamente), e quindi inizia a frequentare palestre e campetti.
Controlla tutto Tony Clarck, che per lui è quasi un padre che cerca di tenerlo lontano dai guai, che però viene trovato misteriosamente assassinato.
Il piccolo Allen, che intanto vede mamma Ann riaccasarsi con tale Michael Freeman (che le darà altri due figli prima di essere arrestato per spaccio), subisce tutto passivamente.
Le difficoltà economiche sono pesanti e, dopo l’ennesima notte passata digiuno, “Bubba Chuck” (che è il suo nickname ad Hampton) decide di far contenta sua madre, giocherà a basket pur non lasciando il football.
Il suo primo coach si chiama Mike Hailey, in quel di Bethel High School, che fa impazzire perché quando si tratta di studiare e frequentare lui scompare misteriosamente.
Amore e odio, come tutti quelli che hanno allenato quel talento rabbioso ma straripante. Allen vince il titolo sia con la squadra di basket che con quella di football, una cosa che, nell’intero stato della Virginia, non si è mai visto e mai si vedrà, almeno fino ad oggi.
Quindi adesso la strada è tutta in discesa vero? Andrà al college e poi diventerà un professionista e tutti vivranno felici e contenti.
Niente di tutto ciò, perché niente nella vita di Iverson sarà in discesa.
Il 14 Febbraio 1993, in un salone da bowling, Allen inizia a scambiarsi “complimenti” con dei ragazzi bianchi. Dalle parole si passa ai fatti in pochi attimi, e quel salone diventa teatro di una rissa stile Achei contro Troiani. Vola una sedia che colpisce in testa una ragazza e pare che sia stata lanciata proprio da lui, e anche se non fosse vero vengono comunque accusati come responsabili solo lui e un amico.
La condanna arriva in fretta ed è di 5 anni di carcere, ha 17 anni e la sua vita sembra già davanti ad un bivio. Trascorre 5 mesi al Newport News City Farm, una funzione correttiva a Newport News, ma per una volta il destino gli sorride e dal governatore della Virginia arriva la grazia.
“Ho dovuto sfruttare l'esperienza del carcere come qualcosa di positivo. Andare in prigione e mostrare delle debolezze fa sì che tutti gli altri ti prendano di mira. Non ho mai mostrato alcuna debolezza. Ho continuato ad essere forte fino a quando non sono uscito". (Nota a margine: questo incidente e il suo impatto sulla comunità vengono descritti nel documentario “No Crossover: il processo di Allen Iverson”).
Mettete la sua infanzia, le morti premature, l’arresto del patrigno, le difficoltà economiche e 150 giorni in una prigione. L’effetto è devastante, dentro ha un inferno pronto ad esplodere.
Ma il secondo bacio dalla fortuna arriva dalla Nike, che lo invita ad una partita nella quale i migliori talenti americani possono strappare una promessa ad uno scout collegiale.
Kentucky e Georgetown sono in pole: nel primo caso Rick Pitino (allenatore dei Wildcats) è uno vecchio stampo e non tollera un ragazzo con quella fedina penale, nel secondo caso, ovvero gli Hoyas, la tolleranza è ben diversa, perché lì allena John Thompson che, da ragazzo, ha visto più o meno le stesse cose di Allen, e forse per questo decide di dargli una possibilità.
Le difficoltà temprano e formano, non spezzano.
I due anni a Georgetown sono un qualcosa che, da quelle parti, si è visto poche volte: è una macchina da punti, assist e giocate di fisico e tenacia. Il primo anno è “Rookie of the Year”, il secondo anno è inserito nel quintetto All America, mantenendo una media di 23 punti e quasi 5 assist a partita.
La sua vita è finalmente in discesa, anche se mamma Ann continua a passarsela male.
Eccolo il bivio, quello decisivo, ed imbocca la strada dell’eleggibilità al Draft NBA del 1996: diventare professionista gli permetterebbe di guadagnare i soldi necessari per mantenere quella donna che, neanche sedicenne, l’ha messo al mondo.
Thompson non gli dice nulla perché comprende più di ogni altro la natura di quell’esigenza.
Lo chiama Philadelphia (prima scelta assoluta), anzi lo adotta, perché resterà per sempre un figlio della città dell’amore fraterno.
Per la prima volta nella storia un rookie segna 40 punti per 5 partite consecutive, diventa il più giovane giocatore di sempre a realizzare 50 punti in una partita e, il 12 Marzo 1997, manderà al bar tale Michael Jordan con il suo classico “crossover”, una giocata da tramandare ai posteri.
I 76ers non decollano, lui si, perché è “Rookie of the Year” per la stagione 1996/1997.
La crescita è esponenziale, l’anno successivo è capocannoniere della Lega e i 76ers si qualificano addirittura per i Play Off. Quella squadra la allena Larry Brown, col quale non c’è empatia, si arriva spesso al confronto che rischia di sfociare nel classico “o lui o io”.
Rischia di essere ceduto ai Clippers ma, per fortuna, la trattativa naufraga, anzi, diciamo che quasi non nasce, perché Allen si mette in riga e tende una (timida) mano al suo allenatore.
La stagione 2000/2001 è l’apoteosi, un qualcosa che io difficilmente ho visto nella mia vita da appassionato di basket: oltre 31 punti a partita, MVP dell’All Star Game e della Regular Season, ai Play Off eliminano Pacers, Raptors e Bucks (memorabile l’aneddoto di gara 7 al Wells Fargo Center. Manca poco più di mezz’ora all’inizio della partita e Iverson non si trova, è sparito. E’ comodamente seduto a uno dei Mc Donald’s dell’arena mentre mangia un paio di cheeseburger. Per la cronaca segnerà 44 punti, giocando come uno che li sta digerendo), fino ad arrivare alle Finals, dove li aspettano i Lakers di Kobe e Shaq, che sono arrivati a quell’atto finale in sole 11 partite (tre “sweeps” a Blazers, Kings e Spurs).
Quella gara 1 a Los Angeles è qualcosa da raccontare nei secoli. Più della vittoria dei 76ers allo Staples Center dopo un over time, più dei 48 punti del ragazzo di Hampton, passerà alla storia per la giocata di Allen su Tyronn Lue (canestro in allontanamento dall’angolo in faccia al futuro allenatore dei Cleveland Cavaliers, per poi scavalcarlo una volta che quest’ultimo era a terra), una giocata che è diventata l’emblema degli anni 2000, una delle più rappresentative immagini di Davide che batte Golìa.
Le parole, come spesso accade in queste situazioni, le lascio alla vittima: “sono entrato quando aveva 36 punti con 5 minuti da giocare nel terzo quarto. Di mia iniziativa ho cercato di difendere su di lui. Era molto difficile cercare di limitarlo, ha cominciato a chiamarmi per numero, mi veniva a cercare per segnarmi in faccia ad ogni possesso.”
I Lakers domineranno le successive 4 partite portando a casa il titolo, ma poco conta, il mondo è ai piedi di “AI3”.
Ci sarebbe da menzionare il passaggio ai Denver Nuggets, le esperienze a Memphis, Detroit ed Istanbul e il ritorno a Philadelphia (con 19.931 punti è il miglior realizzatore della storia dei 76ers, davanti ad un certo Julius Erving, che il 1° Marzo 2014 ritireranno, ufficialmente, la sua maglia numero 3), ma io, come credo anche voi, mi sono innamorato di un altro Allen Iverson, quello che ha mandato al bar Michael Jordan, quello che ha scavalcato e calpestato Lue, quello che dominato questo gioco pur arrivando a stento a 180 cm di altezza e 75 kg di peso (50 di cuore e 25 di orgoglio).
Quello che, il 4 Aprile 2016, è stato inserito nella Hall of Fame.
E’ stato un punto di riferimento per tanti giocatori che oggi sono di rilievo in NBA, è stato un esempio per tanti ragazzi nati nel ghetto e per tanti atleti talentuosi ma che hanno rischiato di dilapidare il loro patrimonio perché non supportati da un carattere notevole.
E’ stato semplicemente lui, per tutta la sua carriera, ed è stata la sua più grande forza, oltre che il suo più grande limite.
Quando ha parlato ha sempre detto cose forti e d’impatto, ma c’è una dichiarazione che ci fa capire ulteriormente chi è.
“Non voglio essere Jordan, non voglio essere Bird, Isiah, non voglio essere come questi ragazzi. Voglio guardarmi allo specchio e dire: questo sono io, questo è Allen Iverson, questo è il modo di fare basket. Ho giocato a modo mio.”
Nessuna voglia di emulare o imitare, nessuna voglia di ripercorrere storie già vissute, ma consapevolezza e sicurezza di aver sempre fatto tutto a modo suo.
Because I'm not the question...I'm The Answer!
Nessun commento:
Posta un commento