“Affronta gli ostacoli e fa qualcosa per superarli.
Scoprirai che non hanno neanche la metà della forza che pensavi avessero.”
[Norman Vincent Peale]
Ostacolo è l’autentica parola chiave di questo nostro nono episodio, perché di ostacoli, il nostro protagonista, ne ha dovuti superare davvero tanti, ben più insidiosi di quelli che può trovare sul parquet.
La sua è una storia di rivincite e di vittorie contro ogni pronostico, perché lui è un underdog nella vita da quando aveva soli 13 anni.
Perché lui è Jimmy Butler.
Nasce a Houston il 14 Settembre 1989, come tantissimi afroamericani il padre non c’era perché scappato quando lui era ancora un neonato, e a differenza di tantissimi afroamericani non ha avuto un'altra spalla sulla quale appoggiarsi.
“I don’t like the look of you. You gotta go. (Non mi piace il tuo aspetto. Devi andartene)”. Queste parole se l’è appena sentite dire da sua madre, che lo caccia letteralmente di casa quando lui ha soli 13 anni.
Inizia così la sua odissea a Tomball, quartiere di Houston, dove, per qualche mese, vive addirittura sotto i ponti senza un dollaro in tasca. E’ un mendicante, una condizione che spezzerebbe qualsiasi essere umano, non lui, che anni dopo, interpellato sull’argomento, dirà: “non voglio che le persone si sentano in colpa e provino compassione per me. E’ una cosa che non sopporto, non c’è niente di cui dispiacersi. Queste difficoltà mi hanno reso l’uomo che sono.”
Mentre gira di casa in casa in cerca di un tetto stabile sotto il quale ripararsi, l’unica cosa su cui si concentra è lo sport, prima il football, poi il basket, che è la sua vera grande passione. La palla a spicchi è l’unica costante nella sua vita, che di costante non ha proprio nulla. L’High School non è il suo palcoscenico, fino al “junior year” è sostanzialmente uno sconosciuto. Ma durante il “senior year” la sua vita cambia, perchè trova una famiglia. Tutto nasce al termine di una partita di Summer League, quando un ragazzo del primo anno lo nota e lo sfida a una gara di tiro da 3 punti, che Jimmy accetta senza esitare. Quel ragazzo si chiama Jordan Leslie e, da quel momento, lui e Jimmy diventano grandi amici. Inizia a essere invitato a casa di Jordan per stare la notte. Jordan che era solo uno dei sette figli di Michelle Lambert, quattro con il suo primo marito (che la lasciò vedova) e tre del secondo marito (ereditati da un matrimonio precedente), ma nonostante le brutte voci che giravano attorno a Jimmy i Lambert (che hanno preso a cuore la storia di questo ragazzone dal volto triste) decisero di aggiungere un ottavo figlio a patto che rispettasse alcune regole. Jimmy aveva un coprifuoco (per la prima volta nella vita), doveva andare bene a scuola, doveva aiutare in casa, doveva stare lontano dai guai ed essere un esempio per i fratelli più piccoli. Lui non esitò nemmeno per un istante ad ascoltare le richieste della donna che gli stava salvando la vita. “Mi hanno accettato non perché fossi bravo a giocare a basket, ma per quello che ero. La signora Lambert mi ha dato amore, tutto ciò di cui avevo bisogno.”
L’ultimo anno di High School è stato il suo migliore (viaggia a 21 punti e 9 rimbalzi di media, primo quintetto All America), ma questo non basta a convincere i college di Division I del suo valore, quindi si accontenta del Tyler Junior College, vicino a casa. Dopo una sola stagione (18.1 punti, 7.7 rimbalzi e 3.1 assist a gara) i grandi college iniziano a bussare alla sua porta: si fanno avanti Kentucky, Clemson, Mississippi State e Iowa State.
Lui lascia scegliere la signora Lambert, e quindi si opta per Marquette, che ha alto valore accademico, quindi gli avrebbe permesso di ottenere una laurea prestigiosa, di avere un piano B nella vita.
Anche questa possibilità, però, nasconde un ostacolo immenso. La sua prima stagione a Marquette lo vede giocare solo 20 minuti a partita con appena 5 punti di media, il suo allenatore (Buzz Williams) lo tratta in maniera durissima (spiegherà, successivamente, che era spietato con lui perché non sapeva quanto poteva diventare bravo. Per tutta la vita gli era stato detto che non era bravo abbastanza. Lui vedeva un ragazzo che poteva avere un impatto in quella squadra in moltissimi modi).
Per la prima volta nella vita Jimmy pare voler mollare tutto in preda allo sconforto, ma è ancora una volta la mamma adottiva a spronarlo a non mollare.
La pazienza paga e nel suo terzo anno (2010/2011) mette assieme 15.7 punti, 6.1 rimbalzi, 2.3 assist e 1.4 recuperi di media, attirando tanti scouts della NBA.
Durante la Senior Night, nel momento in cui lascia il campo, tutto il Fiserv Forum si alza in piedi ad applaudirlo, tanto da far commuovere la signora Lambert.
“Sono fiera ed orgogliosa di lui. Finora tutti hanno sempre dubitato di Jimmy. La verità è che lui ha cambiato la nostra vita, rendendo migliore la nostra famiglia”, dirà la signora Michelle, in un fiume di lacrime.
Arriva la notte del Draft NBA 2011, Jimmy è a casa con la madre adottiva e i sette fratelli. Passano i minuti e le scelte ma a un certo punto il compianto David Stern dice: “With the 30th pick in the 2011 draft, the Chicago Bulls select Jimmy Butler from Marquette University.”. La signora Lambert scoppia in lacrime, lei e Jimmy si abbracciano: il ragazzino che a 17 anni accolse in casa sua ce l’aveva fatta, ma non si trattava di un traguardo bensì di un nuovo inizio.
La stagione d’esordio per Butler è la celebre stagione del lockout che i Bulls chiudono al primo posto ad Est, con il miglior record della Lega (50-16) ex-equo con i San Antonio Spurs di Popovich. I numeri di Jimmy sono ben lontani dall’essere da capogiro, ma la sua dedizione, la sua fame e il suo impegno quotidiano pagano. Complice anche l’infortunio di Derrick Rose nella prima gara di playoff, la stagione 2012/2013, che i Bulls chiuderanno quinti ad Est, vede Jimmy sempre più presente in campo triplicando tutte le statistiche, numeri che non fanno altro che migliorare durante i playoff, in cui Jimmy parte sempre in quintetto e macina oltre 13 punti a partita con 5 rimbalzi e 3 assist a completare il quadro. Nella “Windy City” stava nascendo qualcosa di veramente speciale: Rose e Butler potevano riportare i Bulls in vetta, ma quando gli umani fanno piani gli dei si divertono a sovvertirli.
Rose è più in infermeria che in campo, e i Bulls diventano sempre di più la squadra di Butler: i risultati, a livello di squadra, restano modesti, ma lui farà in modo di restare per sempre impresso nella memoria della franchigia dell’Illinois.
In una partita contro i Toronto Raptors segna 40 punti in un solo tempo, battendo il record di un certo Michael Jordan, che nel 1988 si era fermato a 39.
Qualche settimana dopo, contro i 76ers (oltre a Rose manca anche Pau Gasol), mette a referto 53 punti, conditi da 10 rimbalzi e 6 assist, scomodando nuovamente “His Airness”, perché solo lui, con addosso la maglia dei Bulls, era riuscito a chiudere una partita con almeno 50 punti, 10 rimbalzi e 5 assist.
Nell’estate del 2017 la sua avventura nella “Città del Vento” si conclude (si toglierà anche la soddisfazione di diventare il terzo di sempre per “quarantelli” segnati nella storia della franchigia e l’unico, assieme a Jordan, ad aver realizzato almeno 20 tiri liberi in una partita), andrà ai Minnesota Timberwolves (trascina la squadra ai Play Off dopo ben 14 anni), ma l’avventura a “Minnie”, durata una sola stagione, non si conclude bene (il momento più difficile, per tutta la franchigia, è diventato ormai leggenda: Butler, adirato con Wiggins e Karl Anthony Towns, decide di giocare una partita amichevole contro i titolari affiancato dalle terze linee. Alla fine chi pensate avrà vinto: una squadra guidata da un ragazzo che 10 anni prima era letteralmente “homeless” (senzatetto) o i titolari? Proprio così, vincono le terze scelte affiancate da un Butler talmente indemoniato da gridare più volte “He’s soft” a Towns, dopo averlo marcato senza troppi grattacapi in post basso).
Questo episodio fa nascere la retorica di un Butler bullo, di una prima donna che in spogliatoio fa più danni di quanti possa poi riparare con le proprie prestazioni in campo. Ecco, quindi, il secondo cambio di franchigia in diciotto mesi, perché si trasferisce ai Philadelphia 76ers (quelli che aveva disintegrato neanche due anni prima).
Qui i tifosi lo omaggiano ricreando la celebre copertina di Sports Illustrated degli anni ‘80, per essere quella terza superstar in grado di guidare i suoi giovani compagni. Giunto ai Sixers si può pesare immediatamente il suo contributo, perchè è lui l’uomo che si prende i tiri nei momenti importanti, tra cui un paio di buzzer beater nel primo mese da stella della squadra. L’epilogo non è stato quello sperato, con i Sixers che si sono infranti sulla tripla di Kawhi Leonard che ha portato, poi, i Raptors al loro primo titolo NBA.
Ora, però, c’è un nuovo capitolo nella sua carriera, l’approdo ai Miami Heat in cui essere il vero Alpha, con una missione ben precisa: riportare la franchigia della Florida ai fasti di inizio millennio. La palla sarà sempre più pesante, ma nelle mani di Jimmy sarà leggera come una piuma, come ogni volta. Cosa potrà mai essere una stagione da underdog per un ragazzo che nella vita è stato ben più che un semplice underdog? Cosa potrà essere un tiro con pochi secondi al termine rispetto a vivere di casa in casa senza sapere se si mangerà e si potrà dormire al caldo un giorno in più? Che pressione può avere, all’interno di una partita di basket, un ragazzo che prima del basket non aveva niente?
L’umiltà, la fame, la voglia di dimostrare di questo ragazzo meritano una menzione speciale.
“La gente ha dubitato di me per tutta la vita, anche mia madre l’ha fatto. Ai tempi dell’high school mi dicevano che ero troppo basso e non abbastanza veloce per giocare a basket. Tutte queste persone non conoscevano la mia storia, perché se avessero saputo tutto quello che ho passato avrebbero capito che tutto è possibile nella vita.”
Non si può non sorridere e non apprezzare Jimmy Butler, un esempio di impegno, costanza e rivalsa per una vita che troppo spesso gli ha dato dispiaceri forti.
Ma che ha saputo affrontare a testa alta, dalla strada alle stelle.
Ostacolo è l’autentica parola chiave di questo nostro nono episodio, perché di ostacoli, il nostro protagonista, ne ha dovuti superare davvero tanti, ben più insidiosi di quelli che può trovare sul parquet.
La sua è una storia di rivincite e di vittorie contro ogni pronostico, perché lui è un underdog nella vita da quando aveva soli 13 anni.
Perché lui è Jimmy Butler.
Nasce a Houston il 14 Settembre 1989, come tantissimi afroamericani il padre non c’era perché scappato quando lui era ancora un neonato, e a differenza di tantissimi afroamericani non ha avuto un'altra spalla sulla quale appoggiarsi.
“I don’t like the look of you. You gotta go. (Non mi piace il tuo aspetto. Devi andartene)”. Queste parole se l’è appena sentite dire da sua madre, che lo caccia letteralmente di casa quando lui ha soli 13 anni.
Inizia così la sua odissea a Tomball, quartiere di Houston, dove, per qualche mese, vive addirittura sotto i ponti senza un dollaro in tasca. E’ un mendicante, una condizione che spezzerebbe qualsiasi essere umano, non lui, che anni dopo, interpellato sull’argomento, dirà: “non voglio che le persone si sentano in colpa e provino compassione per me. E’ una cosa che non sopporto, non c’è niente di cui dispiacersi. Queste difficoltà mi hanno reso l’uomo che sono.”
Mentre gira di casa in casa in cerca di un tetto stabile sotto il quale ripararsi, l’unica cosa su cui si concentra è lo sport, prima il football, poi il basket, che è la sua vera grande passione. La palla a spicchi è l’unica costante nella sua vita, che di costante non ha proprio nulla. L’High School non è il suo palcoscenico, fino al “junior year” è sostanzialmente uno sconosciuto. Ma durante il “senior year” la sua vita cambia, perchè trova una famiglia. Tutto nasce al termine di una partita di Summer League, quando un ragazzo del primo anno lo nota e lo sfida a una gara di tiro da 3 punti, che Jimmy accetta senza esitare. Quel ragazzo si chiama Jordan Leslie e, da quel momento, lui e Jimmy diventano grandi amici. Inizia a essere invitato a casa di Jordan per stare la notte. Jordan che era solo uno dei sette figli di Michelle Lambert, quattro con il suo primo marito (che la lasciò vedova) e tre del secondo marito (ereditati da un matrimonio precedente), ma nonostante le brutte voci che giravano attorno a Jimmy i Lambert (che hanno preso a cuore la storia di questo ragazzone dal volto triste) decisero di aggiungere un ottavo figlio a patto che rispettasse alcune regole. Jimmy aveva un coprifuoco (per la prima volta nella vita), doveva andare bene a scuola, doveva aiutare in casa, doveva stare lontano dai guai ed essere un esempio per i fratelli più piccoli. Lui non esitò nemmeno per un istante ad ascoltare le richieste della donna che gli stava salvando la vita. “Mi hanno accettato non perché fossi bravo a giocare a basket, ma per quello che ero. La signora Lambert mi ha dato amore, tutto ciò di cui avevo bisogno.”
L’ultimo anno di High School è stato il suo migliore (viaggia a 21 punti e 9 rimbalzi di media, primo quintetto All America), ma questo non basta a convincere i college di Division I del suo valore, quindi si accontenta del Tyler Junior College, vicino a casa. Dopo una sola stagione (18.1 punti, 7.7 rimbalzi e 3.1 assist a gara) i grandi college iniziano a bussare alla sua porta: si fanno avanti Kentucky, Clemson, Mississippi State e Iowa State.
Lui lascia scegliere la signora Lambert, e quindi si opta per Marquette, che ha alto valore accademico, quindi gli avrebbe permesso di ottenere una laurea prestigiosa, di avere un piano B nella vita.
Anche questa possibilità, però, nasconde un ostacolo immenso. La sua prima stagione a Marquette lo vede giocare solo 20 minuti a partita con appena 5 punti di media, il suo allenatore (Buzz Williams) lo tratta in maniera durissima (spiegherà, successivamente, che era spietato con lui perché non sapeva quanto poteva diventare bravo. Per tutta la vita gli era stato detto che non era bravo abbastanza. Lui vedeva un ragazzo che poteva avere un impatto in quella squadra in moltissimi modi).
Per la prima volta nella vita Jimmy pare voler mollare tutto in preda allo sconforto, ma è ancora una volta la mamma adottiva a spronarlo a non mollare.
La pazienza paga e nel suo terzo anno (2010/2011) mette assieme 15.7 punti, 6.1 rimbalzi, 2.3 assist e 1.4 recuperi di media, attirando tanti scouts della NBA.
Durante la Senior Night, nel momento in cui lascia il campo, tutto il Fiserv Forum si alza in piedi ad applaudirlo, tanto da far commuovere la signora Lambert.
“Sono fiera ed orgogliosa di lui. Finora tutti hanno sempre dubitato di Jimmy. La verità è che lui ha cambiato la nostra vita, rendendo migliore la nostra famiglia”, dirà la signora Michelle, in un fiume di lacrime.
Arriva la notte del Draft NBA 2011, Jimmy è a casa con la madre adottiva e i sette fratelli. Passano i minuti e le scelte ma a un certo punto il compianto David Stern dice: “With the 30th pick in the 2011 draft, the Chicago Bulls select Jimmy Butler from Marquette University.”. La signora Lambert scoppia in lacrime, lei e Jimmy si abbracciano: il ragazzino che a 17 anni accolse in casa sua ce l’aveva fatta, ma non si trattava di un traguardo bensì di un nuovo inizio.
La stagione d’esordio per Butler è la celebre stagione del lockout che i Bulls chiudono al primo posto ad Est, con il miglior record della Lega (50-16) ex-equo con i San Antonio Spurs di Popovich. I numeri di Jimmy sono ben lontani dall’essere da capogiro, ma la sua dedizione, la sua fame e il suo impegno quotidiano pagano. Complice anche l’infortunio di Derrick Rose nella prima gara di playoff, la stagione 2012/2013, che i Bulls chiuderanno quinti ad Est, vede Jimmy sempre più presente in campo triplicando tutte le statistiche, numeri che non fanno altro che migliorare durante i playoff, in cui Jimmy parte sempre in quintetto e macina oltre 13 punti a partita con 5 rimbalzi e 3 assist a completare il quadro. Nella “Windy City” stava nascendo qualcosa di veramente speciale: Rose e Butler potevano riportare i Bulls in vetta, ma quando gli umani fanno piani gli dei si divertono a sovvertirli.
Rose è più in infermeria che in campo, e i Bulls diventano sempre di più la squadra di Butler: i risultati, a livello di squadra, restano modesti, ma lui farà in modo di restare per sempre impresso nella memoria della franchigia dell’Illinois.
In una partita contro i Toronto Raptors segna 40 punti in un solo tempo, battendo il record di un certo Michael Jordan, che nel 1988 si era fermato a 39.
Qualche settimana dopo, contro i 76ers (oltre a Rose manca anche Pau Gasol), mette a referto 53 punti, conditi da 10 rimbalzi e 6 assist, scomodando nuovamente “His Airness”, perché solo lui, con addosso la maglia dei Bulls, era riuscito a chiudere una partita con almeno 50 punti, 10 rimbalzi e 5 assist.
Nell’estate del 2017 la sua avventura nella “Città del Vento” si conclude (si toglierà anche la soddisfazione di diventare il terzo di sempre per “quarantelli” segnati nella storia della franchigia e l’unico, assieme a Jordan, ad aver realizzato almeno 20 tiri liberi in una partita), andrà ai Minnesota Timberwolves (trascina la squadra ai Play Off dopo ben 14 anni), ma l’avventura a “Minnie”, durata una sola stagione, non si conclude bene (il momento più difficile, per tutta la franchigia, è diventato ormai leggenda: Butler, adirato con Wiggins e Karl Anthony Towns, decide di giocare una partita amichevole contro i titolari affiancato dalle terze linee. Alla fine chi pensate avrà vinto: una squadra guidata da un ragazzo che 10 anni prima era letteralmente “homeless” (senzatetto) o i titolari? Proprio così, vincono le terze scelte affiancate da un Butler talmente indemoniato da gridare più volte “He’s soft” a Towns, dopo averlo marcato senza troppi grattacapi in post basso).
Questo episodio fa nascere la retorica di un Butler bullo, di una prima donna che in spogliatoio fa più danni di quanti possa poi riparare con le proprie prestazioni in campo. Ecco, quindi, il secondo cambio di franchigia in diciotto mesi, perché si trasferisce ai Philadelphia 76ers (quelli che aveva disintegrato neanche due anni prima).
Qui i tifosi lo omaggiano ricreando la celebre copertina di Sports Illustrated degli anni ‘80, per essere quella terza superstar in grado di guidare i suoi giovani compagni. Giunto ai Sixers si può pesare immediatamente il suo contributo, perchè è lui l’uomo che si prende i tiri nei momenti importanti, tra cui un paio di buzzer beater nel primo mese da stella della squadra. L’epilogo non è stato quello sperato, con i Sixers che si sono infranti sulla tripla di Kawhi Leonard che ha portato, poi, i Raptors al loro primo titolo NBA.
Ora, però, c’è un nuovo capitolo nella sua carriera, l’approdo ai Miami Heat in cui essere il vero Alpha, con una missione ben precisa: riportare la franchigia della Florida ai fasti di inizio millennio. La palla sarà sempre più pesante, ma nelle mani di Jimmy sarà leggera come una piuma, come ogni volta. Cosa potrà mai essere una stagione da underdog per un ragazzo che nella vita è stato ben più che un semplice underdog? Cosa potrà essere un tiro con pochi secondi al termine rispetto a vivere di casa in casa senza sapere se si mangerà e si potrà dormire al caldo un giorno in più? Che pressione può avere, all’interno di una partita di basket, un ragazzo che prima del basket non aveva niente?
L’umiltà, la fame, la voglia di dimostrare di questo ragazzo meritano una menzione speciale.
“La gente ha dubitato di me per tutta la vita, anche mia madre l’ha fatto. Ai tempi dell’high school mi dicevano che ero troppo basso e non abbastanza veloce per giocare a basket. Tutte queste persone non conoscevano la mia storia, perché se avessero saputo tutto quello che ho passato avrebbero capito che tutto è possibile nella vita.”
Non si può non sorridere e non apprezzare Jimmy Butler, un esempio di impegno, costanza e rivalsa per una vita che troppo spesso gli ha dato dispiaceri forti.
Ma che ha saputo affrontare a testa alta, dalla strada alle stelle.
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