domenica 5 aprile 2020

Episode Eleven: From 0 to Hero


Ripercorrendo la storia del basket, in modo particolare quella della NBA, è facile ricordare i grandi campioni, quelli capaci di decidere le sorti della propria squadra in qualunque momento, soprattutto quando il pallone scotta.
Pierce, Kobe, LeBron, Iverson, Curry, Mc Grady e via discorrendo.
Se in palio ci fosse la mia vita, e dovessi scegliere un giocatore al quale affidare l’ultimo tiro della partita, quello che decide il mio destino, non lo affiderei a nessuno di questi.
La mia prima scelta ricadrebbe su un ragazzo nato 38 anni fa a Tampa, costa Ovest della Florida.
Uno che, da quando ha emesso il primo vagito, è sempre stato in missione, ha sempre voluto dimostrare che per lui niente era impossibile.
Oggi vi piace vedere point guard che sparano triple da ogni posizione? Che sanno creare dal palleggio dominando le partite?
Sono tutti figli suoi, di quel ragazzo nato a Tampa il 6 Gennaio 1982.
Quel ragazzo si chiama Gilbert Jay Arenas.

Nato dall’unione non proprio idilliaca di Gilbert sr. e Mary Francis, il piccolo Gilbert non inizia la sua vita sotto una buona stella.
Mary, infatti, abbandonata ancora incinta, non è minimamente responsabilizzata dalla nascita (e successiva custodia) del figlio.
E’ senza lavoro e senza soldi, cede alla sua fragilità emotiva e inizia a frequentare persone poco raccomandabili; alcool, droga e guai con la legge diventano presto una consuetudine.
Più passa il tempo e più la situazione si complica: vanno a vivere a Overtown, complesso residenziale di Miami, con Mary che ha avuto un altro figlio ma è ormai totalmente dipendente da alcool e droga. Il piccolo Gilbert, che ha solo 3 anni, ha un futuro oscuro davanti a sé.
L’ancora di salvezza risponde al nome di Virginia Huggins, che è la nonna del fratellastro di Gilbert: aiuta stabilmente Mary e cresce i due bambini come se fossero suoi.
E’ lei che chiama Gilbert sr. dicendogli che è arrivato il momento di fare il padre, di venire a prendere quel figlio che è suo: l’uomo non replica, e da Tampa raggiunge Overtown.
Otterrà il pieno affidamento del bambino, la cui vita, che sembrava destinata all’oblìo, cambia radicalmente.
Cresce in una vera famiglia, dove affetto e amore non gli mancano: tutti sono felici, tranne Gilbert sr., che non ha mai abbandonato l’aspirazione di diventare attore.
Nel 1989 si trasferisce col figlio a Los Angeles, dove prova a “sbarcare il lunario” (ma intanto lavora come metronotte per guadagnarsi da vivere) mentre il figlio cresce con il mito dei Lakers dello “Show Time”, frequenta assiduamente i playground californiani e sogna un giorno di poter raggiungere il livello dei suoi idoli.
La pallacanestro è il suo santuario, il posto in cui si rifugia e si misura con sé stesso e con i suoi limiti.
Nell’autunno del 1995 si iscrive alla Birmingham High School dove si inserisce come studente ma non come cestista: quel gioco troppo organizzato non fa per lui, non sembra addirittura interessato ai concetti tecnici portati avanti dall’allenatore, che si chiama Al Bennett e che, un giorno, lo convoca assieme al padre e gli dice che non lo vuole più in squadra.
Non lo ritiene adatto a giocare all’interno di un sistema organizzato, può cercarsi un’altra destinazione.
Arenas prende atto e in quell’estate lavora ancora più duramente, perché la sua missione è appena cominciata. Durante una Summer League lo nota Howard Levine: lo nota…diciamo che rimane completamente folgorato dal suo modo di giocare.
Io non so tu chi sia, non conosco il tuo background o niente che ti riguardi. Ma ti ho appena visto giocare e ti dico che se lavori intensamente puoi avere un’opportunità nella NBA. Non ho mai visto nessuno come te”. Sono parole che cambieranno per sempre la sua vita.
Levine non è li di passaggio, perché allena a Grant High School, dove Gilbert si iscrive e dove, ovviamente, sarà al centro del progetto tecnico del coach.
I tre anni a Grant sono fantasmagorici, soprattutto l’ultimo, che lo vede viaggiare a quasi 34 punti ed 8 rimbalzi di media, oltre a raccogliere svariati riconoscimenti personali.
Diverse università valutano la possibilità di offrirgli una borsa di studio, ma tutte sembrano essere scoraggiate dal suo atteggiamento in campo e fuori, ritenuto poco equilibrato.
Infatti lo scartano in parecchie, fin quando non si fa avanti Arizona University che, nonostante nel suo ruolo abbia puntato forte su Ruben Douglas (che anni dopo i tifosi di Fortitudo Bologna e Milano ricorderanno in maniera affettiva differente), decide di dargli una chance.
Lui si pone come obiettivo primario quello di scalzare Douglas entro metà stagione, gli addetti ai lavori pensano che giocherà 0 minuti per quei Wildcats, per questo sceglie il numero 0, per ricordarsi ogni giorno di quelli che lo hanno denigrato e non hanno creduto in lui.
Piccolo inciso: la stagione NCAA inizia a Novembre, a metà Dicembre Douglas ha già lasciato Arizona University per trasferirsi a New Mexico, totalmente oscurato dal talento di Arenas.
Quei Wildcats diventano la SUA squadra (ventello agevole con dedica contro UCLA, una di quelle che l’ha scartato), il secondo anno (2000/2001) si stringono attorno a coach Bobby Olson, che ha perso sua moglie divorata da un cancro, arrivando fino alla finale, che perderanno contro i Blue Devils di Duke, che tra le loro fila annoverano gente come Carlos Boozer, Mike Dunleavy e Shane Battier.
Arenas ha giocato quella finale con una costola incrinata (regalo di Zach Randolph in semifinale contro Michigan State), l’impresa è sfumata di un soffio.
Decide di rendersi eleggibile al Draft NBA del 2001, ovviamente tutti sono dubbiosi, il suo “scouting report” parla di giocatore che non ha le caratteristiche giuste per fare il playmaker ed è troppo basso per giocare da guardia.
Pane per i suoi denti, oltre a fuoco che si alimenta dentro di sé.
Viene chiamato alla 31° pick dai Golden State Warriors (che comunque gli avevano inizialmente preferito Jason Richardson e Troy Murphy, quindi è la terza scelta di squadra), non proprio quello che si aspettava. Dovrà far ricredere tutti, ancora una volta.
Passa le prime 40 partite nel mondo dei pro seduto in panchina, tutti i giudizi negativi che lo accompagnano dall’infanzia continuano ad affiorargli la mente partita dopo partita.
In allenamento si impegna come un ossesso, attendendo quella dannata occasione per far vedere che lui a quel livello ci può stare.
E l’occasione gliela offre coach Brian Winters che, complici anche alcuni infortuni, decide di schierarlo playmaker. Entra finalmente nella rotazione di quei Warriors, è il 2001/2002 ed è parte integrante della rotazione della squadra.
Un episodio, però, lo colpisce in quella stagione: squadra in trasferta a Miami, durante la gara Gilbert sente qualcuno che lo chiama dagli spalti. E’ Mary Francis, sua madre, che lo sta chiamando con tutto il fiato che ha in corpo. Non la vede da 18 anni. A fine partita lei corre da lui per abbracciarlo, chiedendogli scusa per tutto il male che gli ha causato.
Arenas non reagisce, l’ha perdonata ma non la chiamerà nonostante le richieste della donna. I due non si rivedranno mai più, anche perché Mary Francis morirà nel 2010, ad appena 46 anni, e Gilbert si porterà dentro il rimorso di non averle mai detto che l’aveva perdonata, nonostante tutto.
L’anno successivo è il playmaker titolare della squadra, che otterrà risultati modesti: lui si consola con la prima chiamata all’All Star Game, dove partecipa al Rookie Challenge divenendone l’MVP, e chiudendo quel 2002/2003 col premio di “Most Improved Player” della Lega, ovvero giocatore più migliorato.
Nell’estate del 2003, sentendosi per la prima volta importante e decisivo, decide di sondare il mercato dei free agent (gli Warriors, essendo sopra al salary cap ed avendolo scelto al secondo giro, non potevano pareggiare le offerte che sarebbero arrivate a lui), e vedrà in seguito una normativa a suo nome: la “Gilbert Arenas Rule”, che permetterà alle franchigie di pareggiare le offerte anche per i prodotti del secondo giro.
Diverse squadre sono sulle sue tracce, ma due in particolare gli offrono un contratto soddisfacente: Los Angeles Clippers e Washington Wizards. Quale scegliere? Da perfetto uomo di strada decide di fare “flip or coin” (il nostro testa o croce sostanzialmente): 8 volte su 10 la monetina dice Clippers, ma alla fine opta per la capitale, con contratto di 5 anni da 65 milioni di dollari complessivi.
Washington è una squadra in piena ricostruzione, ritardata a causa del biennio Jordan appena concluso e da mosse scellerate sul mercato (su tutte Kwamone Brown alla #1 del Draft del 2001). La prima stagione a livello numerico procede sulla falsariga di quello precedente, ma gli infortuni lo limitano parecchio, costringendolo di fatto a saltare 27 partite.
Coach Eddie Jordan, inizialmente scettico, se ne innamora e lo incoraggia ad essere sé stesso.
La svolta arriva nella stagione 2004/2005: in estate la dirigenza gli affianca Antawn Jamison e, soprattutto, Larry Hughes, visto che i due, grandi amici anche fuori dal campo, compongono una coppia esplosiva.
Arenas gioca da leader, non solo nei numeri (siamo oltre i 25 punti a partita conditi da 5 assist e 4 rimbalzi), ma anche nell’atteggiamento, visto che impressiona tutti per atteggiamento ed etica del lavoro. Washington torna ai Play Off 8 anni dopo l’ultima volta, al primo turno elimina i Bulls (4-2) e in quella gara 5 (serie sul 2-2) nascerà il mito di “Agent Zero”: 110-110, ultimo possesso, palla ad Arenas che è marcato da un ottimo difensore come Kirk Hinrich. Fade Away da distanza siderale, solo il fondo del secchiello, vittoria Washington, Verizon Center in visibilio.
Era dal 1982 che Washington non superava il primo turno in post season, con la festa che verrà rovinata dai Miami Heat in semifinale di Conference.
Il 2005/2006 è la stagione, numeri alla mano, migliore (29.3 punti e 6.1 assist in Reagular Season e 34 punti e 5.5 assist di media nei Play Off), eppure non viene incredibilmente chiamato all’All Star Game (ci andrà comunque, ma solo come rincalzo).
Pare che alla base di quella mancata chiamata ci sia Larry Brown, che sta allenando gli New York Knicks, che non l’ha votato: quanti punti segnerà Arenas contro i Knicks alla prima occasione utile? 46, alla cassa, con qualcuno che, dalla panchina di Washington, pare che stia urlando “avresti fatto bene a votarlo Larry!
Arenas definirà quella partita il suo personalissimo “Vendetta Game”…non sarà l’ultimo.
Nell’estate del 2006 viene convocato nel roster preliminare di Usa Team che parteciperà ai Mondiali Giapponesi (con occhio a Pechino 2008).
Quando arriva il momento di stilare la lista dei 12 che si imbarcheranno per Tokyo, il nome di Gilbert Arenas non compare, tanti saluti a Mondiali e Olimpiadi.
I nomi di Mike Krzyzewski, Mike D’Antoni, Nate McMillian e Jerry Colangelo finiranno tutti sulla sua moleskine, gliene deve segnare 50 di media quando li incontrerà in stagione, visto che il secondo e il quarto sono allenatore e gm dei Phoenix Suns, mentre il terzo allena a Portland (Coach K si salva perché allena in NCAA).
Nel 2006/2007 è carico come una molla, segna canestri decisivi a ripetizione, contro i Lakers ne mette 60 (il duello nel duello con Kobe Bryant [che ne segnerà 45 se non ricordo male] è una cosa clamorosa, rivedetevi quella partita se potete) stabilendo il nuovo record di franchigia per punti realizzati in una sola partita.
Ah poi ci sono le promesse di qualche mese prima: 54 punti contro i Suns (a Phoenix), cui segue la chiamata all’All Star Game, stavolta dalla porta principale, e un contratto di sponsorizzazione da 40 milioni di dollari con l’Adidas, che griffa le prime scarpe a suo nome, le “Gil Zero” (che io avevo, bellissime!).
E’ nel momento migliore della sua carriera ma, purtroppo, succede qualcosa che rovina tutto: un mese prima dei Play Off, in una gara contro Charlotte, Gerald Wallace gli frana involontariamente addosso.
Il responso è quello più temuto: rottura del legamento collaterale mediale del ginocchio sinistro, stagione finita e, a mio modesto modo di vedere, anche carriera, perché non si riprenderà mai del tutto.
L’umore è pessimo: alcuni mesi prima il suo rapporto con Laura Govan, sua compagna fin dai tempi di Oakland, ha vissuto momenti terribili. Gilbert, inizialmente, non riconosce la loro primogenita, e ciò scatena una dura battaglia legale.
Alla fine accetta di fare il test, la figlia è sua e la storia ricomincia, con la coppia che, di figli, ne avrà altri tre.
Nel 2007/2008 gioca solo 13 partite, litigando spesso con i medici perché non accetta di dover rispettare determinate tempistiche necessarie riguardo il pieno recupero.
Nell’estate del 2008 rifirma per Washington (111 milioni in 6 anni, onestamente una follia), nel 2008/2009 gioca 2 partite perché tormentato dagli infortuni, ma il peggio deve ancora venire.
E’ il 21 Dicembre 2009 e nello spogliatoio dei Wizards si respira un’aria molto pesante: pare che Arenas e Javaris Crittenton abbiano dei problemi, si racconta di una partita a poker, sul volo di ritorno da Phoenix di due giorni prima, finita male, con Gilbert che deve un migliaio di dollari a Crittenton, che tra i due sono volate parole grosse.
La mattina del 21 Dicembre, prima della sessione di allenamento fissata per le 10, Arenas chiama Crittenton e apre il suo armadietto. Dentro ci sono quattro pistole: “Hey coglione, vieni a sceglierne una, ti faccio il culo con una di queste”, urla Arenas. Crittenton non se lo fa ripetere due volte, estrae a sua volta una pistola, che però è carica, e la punta verso Gilbert.
Qualche compagno di squadra pensa che sia uno scherzo, ma è tutto vero. Caron Butler, che sta assistendo alla faccenda fin dall’inizio, parla a Crittenton facendolo ragionare, mentre Arenas è pietrificato.
David Stern viene informato dell’accaduto, il caso diventa pubblico e in pochi giorni arrivano le sentenze: la NBA sospende Arenas e Crittenton fino al termine della stagione 2009/2010, e Gilbert viene anche condannato (2 anni di libertà vigilata e 30 giorni in un centro di recupero) per detenzione illegale di armi.
L’immagine pubblica di Arenas è devastata e il suo consenso tra gli appassionati e gli addetti ai lavori è ai minimi storici, in più l’Adidas strappa il contratto e sospende le campagne pubblicitarie.
A Washington va anche peggio, perché in tanti chiedono di essere ceduti (accontentati): lui prova a fare da chioccia a John Wall, scelto al Draft del 2010, cambia numero di maglia (da 0 a 9), ma è finita, lo cedono agli Orlando Magic in cambio di Rashard Lewis.
Il
suo ruolo in Florida è notevolmente ridimensionato (parte dalla panchina come cambio di Jameer Nelson) e le statistiche non fanno altro che ribadirlo (8 punti e 3 assist, con sole due presenze come titolare). Il 9 Dicembre 2011 la società decide di liberarsi di lui grazie all’Amnesty Clause.
Dopo tre mesi si accasa ai Memphis Grizzlies, scegliendo la casacca #10 e sapendo benissimo di non poter ambire ad un posto da titolare data la presenza del giovane e rampante Mike Conley nello spot di point guard. Con un contratto fino al termine della stagione, a Play Off conclusi (Memphis esce subito al primo turno perdendo gara 7 in casa contro i Clippers, proprio quei Clippers che la sorte evitò ad “Hibachi”, che è diventato il suo secondo nickname, anni prima con la monetina) lascia l’NBA, passando dal retro, senza dire nemmeno una parola.
Nel Novembre del 2012 firma per gli Shanghai Sharks, in Cina: al suo debutto in campionato si fa subito male all’inguine, recupera ma non riesce a condurre la squadra ai Play Off.
Torna in America, deciso a chiudere la sua carriera da giocatore professionista: il suo nome non smette di fare notizia, visto che, nonostante sia inattivo, i Magic, che devono finire di pagare il suo clamoroso contratto, continuano a passargli cospicui assegni.
Mantenere le sue auto costose, le sue vasche per squali da 1 milione di dollari (avete letto bene), le scuole private dei figli, pagare le cauzioni dei suoi svariati arresti (possesso illegale di fuochi d’artificio uno dei tanti), le tante multe per infrazioni al codice della strada, le feste, le ville, le cause legali con la compagna è stato un affare decisamente complicato.
Peccato che l’ultimo assegno da Orlando lo riceve nell’Ottobre del 2016, fine dei giochi. “Diventerò povero” afferma uno che ha guadagnato oltre 160 milioni di dollari in carriera sperperando quasi tutto.
Uno che spendeva un milione di dollari per un compleanno ma adotta per la vita un ragazzino che a 10 anni ha perso tutto in un incendio.
Passa svariate volte col rosso con le sue auto fantastiche, si mette in casa una macchina iperbarica capace di ricreare l’atmosfera delle Rocky Mountains, ma dona migliaia di dollari in beneficenza alla comunità di Washington.
Gilbert Arenas è un personaggio discutibile, unico nel suo genere, amato e odiato proprio per questo. Uno che è partito da lontano, che ha preso valanghe di porte in faccia, ma che non ha mai mollato. Uno che ha rivoluzionato il ruolo di point guard, che veniva criticato dalla gente per come giocava e quella stessa gente, anni dopo, elogiava giocatori che, oggi, fanno quello che faceva lui (Russell Westbrook e Kyrie Irving non hanno mai fatto mistero di essersi spesso ispirati a lui).
Gilbert Arenas, come giocatore, è stato gasante e a tratti ispirante, insegnandoci che nella vita bisogna sempre lottare, senza arrendersi mai.
Quando lascerò la NBA non voglio che il mio lascito sia che ho vinto l’anello. Voglio che sia “Ha giocato per la gente”. Ha dato a tutto il mondo la speranza di essere come lui”.
Perché niente è impossibile, anche quando tutti pensano che tu valga 0.

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