Lo sport, nel nostro caso il basket, spesso (quasi
sempre) viene visto come una valvola di sfogo, un modo per tenersi in forma,
per passare il tempo libero.
Ma è anche, e soprattutto, un divertimento, una passione, un modo per scatenare la nostra immaginazione e le nostre emozioni.
L’aspetto ludico del gioco, che non deve mai essere dimenticato.
Lo sport, e in questo caso il basket, spesso servono anche a cambiare futuri già scritti o in parte decisi, come nel caso del protagonista del nostro decimo episodio.
“Non so dove sarei senza la pallacanestro. Non voglio nemmeno pensarci”.
Per fortuna siamo andati oltre quel pensiero, perché questa è la storia di Jason Chandler Williams.
Belle, West Virginia, 1.250 anime arrotondando per eccesso. E’ qui che, il 18 Novembre 1975, nasce Jason, secondogenito di papà Terry (agente di polizia che per arrotondare fa anche la guardia di sicurezza alla DuPont High School) e mamma Delana.
A differenza di suo fratello Shawn (classico figlio modello, eccellente a scuola, pieno di progetti futuri, infatti diventerà poliziotto come suo padre), Jason è un tipo molto eccentrico, linguacciuto, che non si tira mai indietro se c’è da provocare qualcuno, che se gli dici di tornare entro un certo orario lui torna 15 minuti dopo per vedere dove arriva la corda prima di spezzarsi.
E’ un fondamentale della sua esistenza: non ama le regole, soprattutto se imposte da autorità che non riconosce o che si devono guadagnare il suo rispetto.
Il rapporto con suo padre, che diverrà solido e profondo, si è costruito nel tempo, quello con sua madre no. Jason non la stima, è innamorata di un altro uomo e, nel 1990, si separerà dal marito, abbandonandolo appena quindicenne. Della signora Delana non vorrà sapere più nulla, la reputa una traditrice, non a caso sia lui che suo fratello decidono di restare a vivere con suo padre.
Jason, da piccolo, eccelle in molti sport, ma la scintilla per il basket è forte fin da subito e, sfruttando suo padre che, essendo la guardia di sicurezza della scuola, possiede tutte le chiavi, quella del campo da basket è praticamente sua.
Passa ore e ore dentro quella palestra, estraniandosi dal mondo esterno; non importa se fuori è quasi buio, che tutti dicono come deve comportarsi, che i genitori litigano, lui gioca a basket, palleggia fino allo stremo, usa i guanti da lavoro di suo padre per migliorare la sensibilità delle sue mani, con i pesi ai polsi per rendere tutto più difficile.
Quando si stanca di tirare inizia a provare passaggi dietro la schiena e schiacciati a terra usando il muro, il tempo passato all’interno di quella palestra è la sua vita, perché è li che combatte il dolore per la separazione dei genitori, è li che tempra il suo carattere, che sviluppa la sua mente e libera la sua anima cestistica.
Ovviamente la sua smisurata passione per la pallacanestro è diametralmente opposta a quella per la scuola: studiare non gli interessa e l’ambiente scolastico lo opprime, sotterra il suo senso di libertà espressiva. Non ha alcuna aspirazione accademica, e per fortuna che c’è il basket sennò chissà in quali guai si caccerebbe.
Va spesso al play ground della vicina Rand, cittadina popolata prevalentemente da afroamericani, dove si imbatte in epici “pick-up games” nei quali viene costantemente offeso e provocato, ma che serviranno a farlo crescere sotto tanti punti di vista, soprattutto quello caratteriale.
La sua carriera cestistica inizia alla DuPont High School, dove gioca dal 1990 al 1994 diventando, ben presto, la star della scuola. I suoi “Panthers” vanno fortissimo, compone una coppia sensazionale con Randy Moss (che passerà definitivamente al football successivamente, diventando addirittura un futuro pretendente alla Hall of Fame); i due, molto amici anche fuori dal campo, danno letteralmente spettacolo a suon di alley oop alzati da Jason e conclusi da poderose schiacciate di Randy. Il giocatore non si discute (chiude quel quadriennio con oltre 1.000 punti e 500 assist complessivi), ma i risultati scolastici e la fama di ragazzo difficile (corse con auto non esattamente di proprietà e consumo di sostanze non propriamente lecite, marijuana in primis, che diventerà un vero e proprio vizio a lungo andare) frenano numerosi college.
Si fanno comunque avanti Virginia Tech, St. John’s e Providence, perché il giocatore si lascia guardare: Jason sceglie quest’ultima e con coach Rick Barnes è amore a prima vista, ma quando Barnes lascia l’ateneo lui decide di cambiare e vira su St. John’s.
In questo caso è il padre a stopparlo, perché non vuole che viva a New York, città con troppi pericoli e troppe trappole per il carattere così volubile del diciannovenne Jason.
Decide di iscriversi alla Fork Union Military Academy of Virginia, istituto noto per il suo estremo rigore nella formazione di atleti e studenti. Quando arriva alla “FUMAV” la prima cosa che gli viene messa sul tavolo è un saggio breve di inglese di 500 parole da completare in 30 minuti. Al secondo giro di lancette, il ragazzo è fuori dalla porta, urlando “Io qui non ci metterò più piede”.
Troppe regole, troppa serietà, troppa disciplina, oltre a controlli antidroga che l’avrebbero inchiodato subito, non è la sua tazza di tè.
È dunque il turno di Marshall, un college di seconda divisione in Virginia dove Williams incontra coach Billy Donovan, che dopo due anni lo porterà a quella University of Florida dove diverrà una sensazione nazionale e lo metterà sulla mappa mondiale della palla a spicchi.
Nella stagione 1997/1998 “J-Will” viaggia a 17 punti e 7 assist di media, aggiungendo al bottino la consueta pletora di dietro la schiena, crossover e no-look. È uno dei momenti più alti della sua carriera cestistica: le sue foto appaiono in copertina su diverse riviste specializzate, la maglia col coccodrillo va a ruba e i primi paragoni con un certo Pete Maravich iniziano ad essere scomodati, perché a livello collegiale poche volte si è visto uno così.
Dal campus di Gainesville, e con la forza di un temporale estivo, la popolarità di questo ragazzino bianco divora l’America ma, come nelle favole, arriva la mezzanotte e la carrozza diviene zucca. Oltre a saltare troppe lezioni, fallisce nuovamente il test antidroga (sempre marijuana): il risultato è devastante, perché viene cacciato dai Gators fino al termine della stagione. Senza di lui perdono 7 delle ultime 8 partite, compromettendo il campionato, il padre quasi non gli rivolge più la parola, sente la terra mancargli sotto i piedi e l’aria, attorno a lui, si è fatta pesante.
Decide ugualmente di rendersi eleggibile al Draft NBA del 1998, viene scelto settimo in assoluto dai Sacramento Kings: ha 22 anni, senza uno straccio di educazione e con una fedina penale che inizia ad essere logora come un lenzuolo vecchio, fuma marijuana ma vede cose che noi umani fatichiamo a comprendere.
Sulle nocche delle mani compaiono le lettere W-H-I-T (mano destra) e E-B-O-Y (mano sinistra), sul petto si tatua un occhio, che lui definisce il suo terzo occhio, quello che gli permette di passare la palla in quel modo.
“Non mi piacciono i tatuaggi, se avesse bisogno di fare un colloquio di lavoro chi mai lo assumerebbe? Nessuno!” afferma papà Terry…beh, rivedrei la definizione, soprattutto se papà Terry domanda a qualcuno dalle parti dell’allora Arco Arena.
A Sacramento, Williams spende i primi tre anni di carriera NBA, dal 1998/1999 al 2000/2001. Sono forse i più belli, e anche quelli che tutti ricordano, complice anche una squadra che gioca un basket anarchico e poetico, senza lingua, senza playbook e senza ruoli, e che verrà ribattezzata “The Greatest Show on Court” dall’autorevole Sports Illustrated.
Chris Webber è il maestro cerimoniere, Predrag Stojakovic, Doug Christie e Vlade Divac completano il quadro, li guida lui, che diventerà definitivamente “White Chocolate” (perché è un bianco che gioca come un nero, con un gioco dolce e dannatamente buono, come il cioccolato), mentre coach Rick Adelman osserva compiaciuto.
L’Arco Arena è un pandemonio sera dopo sera, tutti amano il suo stile, la gente prova affetto sincero per lui, anche se non tifa per i Kings, in quel triennio la sua maglia numero 55 è una delle cinque più vendute di tutta la NBA.
La stagione 1999/2000 è quella nella quale toglie il velo da una delle giocate che lo renderanno (e tutt’ora lo rendono) celebre e ricordato.
Siamo all’All Star Game di Oakland, 11 Febbraio 2000, “Rookie Challenge”: i “Sophomore” (quelli al secondo anno, quindi la sua squadra) fanno partire un contropiede apparentemente banale, ma Williams sorprende tutti con un gioco di prestigio mai visto prima (ma che già aveva effettuato a DuPont): superata la linea da 3 punti si passa la palla dietro la schiena con la mano sinistra e lascia partire il passaggio col gomito destro, ovviamente senza guardare.
Ladies & Gentlemen ecco a voi “The Elbow Pass”, che il goffo Raef LaFrentz vanificherà sbagliando il canestro (anni dopo Vlade Divac ammetterà di essersi preso parecchie volte il pallone in faccia, in allenamento, perché non capiva da dove provenisse), ma non importa, è un’opera d’arte, una cosa fuori dal mondo che solo un genio può pensare (che io mi rivedo spesso su YouTube, e pur conoscendola a memoria, a distanza di 20 anni, ancora non riesco a capire come abbia fatto, ma solo a pensarla una cosa del genere!).
L’avventura a Sacramento si conclude al termine della stagione 2000/2001 e non benissimo: viene nuovamente sospeso per essere risultato positivo alla (solita) marijuana e successivamente multato (15.000 dollari) per frasi oscene e discriminatorie nei confronti di alcuni tifosi dei Golden State Warriors, durante una partita ad Oakland.
Nei Play Off del 2001 la perestroika nero/viola si stampa contro la pragmaticità devastante dei Lakers di Kobe e Shaq. Dopo un turno vittorioso contro i Suns, i Kings e Williams vengono liquidati 4-0 dai giallo/viola. È una serie che la dice lunga su quello che succede quando il “baloncesto bailado” incontra il deforestamento cestistico che sono i Lakers di quegli anni: gara 3 in particolare, giocata all’Arco Arena, decreta un -22 che gronda sangue e non necessita di ulteriori appelli. Il nostro uomo dalla Virginia in quella gara gioca 21 minuti, totalizzando 2 punti, 1/8 al tiro, 4 assist e 4 palloni regalati agli altri. Non abbastanza, decisamente non abbastanza.
Per la dirigenza è ora di cambiamenti e Williams viene ceduto ai Memphis Grizzlies (freschi di trasferimento da Vancouver) in cambio di Mike Bibby, un playmaker molto più sostanzioso e dotato di maggior sangue freddo.
Nella stagione 2001/2002 Williams fa registrare i suoi numeri migliori di sempre (14.8 punti e 8 assist di media), la vita in quel del Tennessee procede placida, sino a quando a coach Sidney Lowe succede, a metà della stagione 2003/2004, Hubie Brown, momentaneamente impiegato da un network nazionale come commentatore della stagione NBA. Brown, da cronista, non ha mai fatto mistero di non gradire la cioccolata bianca, definendolo un giocatore inconcludente che nessun allenatore con un minimo di obiettivi vorrebbe trovarsi attorno. Se la relazione con il coach non parte esattamente sotto gli astri più lucenti, ancora peggiore è il rapporto del playmaker con Brendan Brown, figlio dell’allenatore e nuovo assistant coach dei Grizzlies. Fra Brown Jr. e Williams gli alterchi sono frequenti in campo e fuori e costano a “Giasone” lunghe sedute in panchina durante il resto della stagione. Il coperchio viene definitivamente tolto dal pentolone il 7 Novembre 2004, in una trasferta a Dallas, quando davanti alle televisioni di mezzo paese Williams si mette ad urlare improperi contro Brown padre e figlio.
L’arrivo di Mike Fratello al posto di Brown, un altro con cui la conversazione non è di stampo Beckettsiano, segnano definitivamente la fine di “J-Will” nella città di Elvis e B.B. King, non prima di averci messo, ovviamente, del suo.
Dopo gara 4 dei Play Off del 2005 (che i Grizzlies straperdono 4-0 contro i Suns), Williams ha uno scontro piuttosto acceso con un giornalista, tanto da buttargli via la penna dalle mani e urlargli nelle orecchie mettendogli quasi le mani addosso. La NBA lo multa di 10.000 dollari, vive un momento molto delicato della sua carriera e, come spesso succede in queste situazioni, l’aiuto di un amico farebbe tutta la differenza del mondo. Se poi quell’amico si chiama Shaquille O’Neal la tua vita non può che avere una svolta pazzesca.
I due sono amici fin dal Draft del 1998, sono stati anche vicini di casa ad Orlando (quando Jason era al college) e hanno giocato assieme in alcuni tornei estivi.
In uno di questi Jason ha letteralmente distrutto Penny Hardaway, ai tempi compagno di squadra di O’Neal ai Magic, in un 1 vs 1 leggendario giocato davanti a centinaia di persone.
Shaq impazzisce completamente per Williams, già nei suoi anni ai Lakers aveva ripetutamente chiesto al front office di prendere Jason, e quando, nell’estate del 2004, “The Diesel” approda a Miami la prima cosa che fa è correre da Pat Riley e chiedergli di prendere Williams.
Il 2 Agosto 2005, al termine di una trade enorme (5 squadre e 11 giocatori, cercatevela su Wikipedia che non ve li scrivo tutti), Jason Williams è ufficialmente un giocatore dei Miami Heat.
Riley, nonostante la presenza di Gary Payton, lo schiera come playmaker titolare e lui ripaga completamente la fiducia, quella è la squadra di Shaq e Wade e lui accetta alla grande il ruolo di comprimario, di terzo o quarto violino, se non addirittura quinto.
Il suo gioco è cambiato: è più concreto, meno dedito alle magie (anche se le regalerà ugualmente), molto più adatto alle richieste di una squadra tanto da anello quanto assolutamente folle.
Se all’ombra delle palme la stagione regolare è assolutamente solida, J-Will si rivela fondamentale per il backcourt di Miami soprattutto nei playoff, aprendo Gara 1 della serie con Chicago con 17 punti e doppia cifra di assist e proseguendo con numeri di tutto rispetto sia nella serie contro Detroit che nella finale contro i Dallas Mavericks. Con il buon rendimento cresce il minutaggio e la fiducia sul campo fino alle Finali; dopo due partite a dir poco oscene giocate dagli Heat in casa di Dallas, il team floridiano inanella 4 vittorie consecutive, una rimonta storica e incredibile avviata dalla sontuosa “remuntada” in una Gara 3 che sembrava ormai persa. Per Miami è il primo titolo, per Williams il risultato più alto di una carriera, ottenuto dopo un anno di grande crescita.
I festeggiamenti a base di spumante, sorrisi e cuori gonfi di gioia per le strade che costeggiano Flamingo Park sono una candela mendace che ha il suo punto più buio proprio accanto alla fiamma. Le due stagioni (disastrose) che seguono sono di ricostruzione completa per la squadra di South Beach, un cantiere aperto per necessità di intenti di progetto e di età. Fuori dalla palestra intanto, la gravidanza della moglie di Williams, Denika Kisty (una ex atleta della squadra di Atletica dei Florida Gators), in attesa del terzo figlio, viene compromessa da una patologia seria e di cui i medici dello stato del Sud capiscono poco o nulla, costringendo la famiglia a lunghi mesi di ospedale e professionisti. In più lui ha problemi alle ginocchia che ne limitano il rendimento a quei livelli. Al termine dell’annata 2007/2008 Williams dichiara ufficialmente il ritiro dal basket.
Tornerà un anno dopo, nel 2009/2010, nella stessa Florida e nell’amata Orlando, dopo una vicenda travagliata di contratti con i Los Angeles Clippers, con i quali aveva firmato un contratto il 7 Agosto 2008 ma con cui non giocò neppure una partita, e con la Lega e i proprietari, che ne osteggiarono il rientro nell’NBA.
La stagione ad Orlando è tutto fuorché il meraviglioso canto del cigno delle fiabe, e la carriera NBA di uno dei giocatori, a mio modesto modo di vedere, più esaltanti ed eccitanti della storia di questo gioco termina in punta di piedi, come il tramonto incolore di un nuvoloso pomeriggio di fine autunno.
Williams ha contribuito, insieme a tanti altri esponenti del gioco dei primi anni 2000, ad una trasformazione dell’NBA e di tutto il basket da semplice pratica sportiva a manifestazione quasi artistica, perchè è fuori discussione che per la generazione nata fra il 1980 e il 2000, “White Chocolate” e tutto quel movimento di spettacolarizzazione della pallacanestro siano stati una miscela insostituibile di ispirazione e ammaliamento.
E’ qualcosa che chi non ha mai giocato non potrà mai capire, perchè la ragione pura e semplice non capisce come si possano barattare 10 palle perse con quell’unico, splendido passaggio dietro la testa in contropiede. E’ qualcosa che tutti noi, con fini più o meno miseri, abbiamo tentato di fare ai campetti, in allenamento o in campionato, mentre stuoli di allenatori ci imploravano di passarla a due mani dal petto e vedere due punti in più sul tabellone.
Se si intende il gioco come tale, anteponendo il mezzo al fine, il bello al buono, il divertimento al risultato, allora Jason Williams è stato uno dei più grandi interpreti di quest’arte.
Ora si diverte a giocare nei play ground o in qualche torneo evento con altri ex giocatori della NBA; lo stile è sempre quello, geniale, inconfondibile, sfrontato, che l’ha consegnato per sempre alla storia del gioco.
“Tutto nasce dalle ore che ho passato in palestra. Per ogni giocata che ho fatto mi sono esercitato centinaia e centinaia di volte in allenamento. Ogni giocata, eccetto l’Elbow Pass”.
Perché non ha mai smesso di essere quel ragazzino che passava tutto il suo tempo libero da solo, in quella palestra della DuPont High School, protetto da ogni cosa che potesse farlo stare male.
L’amore per il basket è sempre stato al centro della sua anima.
Ma è anche, e soprattutto, un divertimento, una passione, un modo per scatenare la nostra immaginazione e le nostre emozioni.
L’aspetto ludico del gioco, che non deve mai essere dimenticato.
Lo sport, e in questo caso il basket, spesso servono anche a cambiare futuri già scritti o in parte decisi, come nel caso del protagonista del nostro decimo episodio.
“Non so dove sarei senza la pallacanestro. Non voglio nemmeno pensarci”.
Per fortuna siamo andati oltre quel pensiero, perché questa è la storia di Jason Chandler Williams.
Belle, West Virginia, 1.250 anime arrotondando per eccesso. E’ qui che, il 18 Novembre 1975, nasce Jason, secondogenito di papà Terry (agente di polizia che per arrotondare fa anche la guardia di sicurezza alla DuPont High School) e mamma Delana.
A differenza di suo fratello Shawn (classico figlio modello, eccellente a scuola, pieno di progetti futuri, infatti diventerà poliziotto come suo padre), Jason è un tipo molto eccentrico, linguacciuto, che non si tira mai indietro se c’è da provocare qualcuno, che se gli dici di tornare entro un certo orario lui torna 15 minuti dopo per vedere dove arriva la corda prima di spezzarsi.
E’ un fondamentale della sua esistenza: non ama le regole, soprattutto se imposte da autorità che non riconosce o che si devono guadagnare il suo rispetto.
Il rapporto con suo padre, che diverrà solido e profondo, si è costruito nel tempo, quello con sua madre no. Jason non la stima, è innamorata di un altro uomo e, nel 1990, si separerà dal marito, abbandonandolo appena quindicenne. Della signora Delana non vorrà sapere più nulla, la reputa una traditrice, non a caso sia lui che suo fratello decidono di restare a vivere con suo padre.
Jason, da piccolo, eccelle in molti sport, ma la scintilla per il basket è forte fin da subito e, sfruttando suo padre che, essendo la guardia di sicurezza della scuola, possiede tutte le chiavi, quella del campo da basket è praticamente sua.
Passa ore e ore dentro quella palestra, estraniandosi dal mondo esterno; non importa se fuori è quasi buio, che tutti dicono come deve comportarsi, che i genitori litigano, lui gioca a basket, palleggia fino allo stremo, usa i guanti da lavoro di suo padre per migliorare la sensibilità delle sue mani, con i pesi ai polsi per rendere tutto più difficile.
Quando si stanca di tirare inizia a provare passaggi dietro la schiena e schiacciati a terra usando il muro, il tempo passato all’interno di quella palestra è la sua vita, perché è li che combatte il dolore per la separazione dei genitori, è li che tempra il suo carattere, che sviluppa la sua mente e libera la sua anima cestistica.
Ovviamente la sua smisurata passione per la pallacanestro è diametralmente opposta a quella per la scuola: studiare non gli interessa e l’ambiente scolastico lo opprime, sotterra il suo senso di libertà espressiva. Non ha alcuna aspirazione accademica, e per fortuna che c’è il basket sennò chissà in quali guai si caccerebbe.
Va spesso al play ground della vicina Rand, cittadina popolata prevalentemente da afroamericani, dove si imbatte in epici “pick-up games” nei quali viene costantemente offeso e provocato, ma che serviranno a farlo crescere sotto tanti punti di vista, soprattutto quello caratteriale.
La sua carriera cestistica inizia alla DuPont High School, dove gioca dal 1990 al 1994 diventando, ben presto, la star della scuola. I suoi “Panthers” vanno fortissimo, compone una coppia sensazionale con Randy Moss (che passerà definitivamente al football successivamente, diventando addirittura un futuro pretendente alla Hall of Fame); i due, molto amici anche fuori dal campo, danno letteralmente spettacolo a suon di alley oop alzati da Jason e conclusi da poderose schiacciate di Randy. Il giocatore non si discute (chiude quel quadriennio con oltre 1.000 punti e 500 assist complessivi), ma i risultati scolastici e la fama di ragazzo difficile (corse con auto non esattamente di proprietà e consumo di sostanze non propriamente lecite, marijuana in primis, che diventerà un vero e proprio vizio a lungo andare) frenano numerosi college.
Si fanno comunque avanti Virginia Tech, St. John’s e Providence, perché il giocatore si lascia guardare: Jason sceglie quest’ultima e con coach Rick Barnes è amore a prima vista, ma quando Barnes lascia l’ateneo lui decide di cambiare e vira su St. John’s.
In questo caso è il padre a stopparlo, perché non vuole che viva a New York, città con troppi pericoli e troppe trappole per il carattere così volubile del diciannovenne Jason.
Decide di iscriversi alla Fork Union Military Academy of Virginia, istituto noto per il suo estremo rigore nella formazione di atleti e studenti. Quando arriva alla “FUMAV” la prima cosa che gli viene messa sul tavolo è un saggio breve di inglese di 500 parole da completare in 30 minuti. Al secondo giro di lancette, il ragazzo è fuori dalla porta, urlando “Io qui non ci metterò più piede”.
Troppe regole, troppa serietà, troppa disciplina, oltre a controlli antidroga che l’avrebbero inchiodato subito, non è la sua tazza di tè.
È dunque il turno di Marshall, un college di seconda divisione in Virginia dove Williams incontra coach Billy Donovan, che dopo due anni lo porterà a quella University of Florida dove diverrà una sensazione nazionale e lo metterà sulla mappa mondiale della palla a spicchi.
Nella stagione 1997/1998 “J-Will” viaggia a 17 punti e 7 assist di media, aggiungendo al bottino la consueta pletora di dietro la schiena, crossover e no-look. È uno dei momenti più alti della sua carriera cestistica: le sue foto appaiono in copertina su diverse riviste specializzate, la maglia col coccodrillo va a ruba e i primi paragoni con un certo Pete Maravich iniziano ad essere scomodati, perché a livello collegiale poche volte si è visto uno così.
Dal campus di Gainesville, e con la forza di un temporale estivo, la popolarità di questo ragazzino bianco divora l’America ma, come nelle favole, arriva la mezzanotte e la carrozza diviene zucca. Oltre a saltare troppe lezioni, fallisce nuovamente il test antidroga (sempre marijuana): il risultato è devastante, perché viene cacciato dai Gators fino al termine della stagione. Senza di lui perdono 7 delle ultime 8 partite, compromettendo il campionato, il padre quasi non gli rivolge più la parola, sente la terra mancargli sotto i piedi e l’aria, attorno a lui, si è fatta pesante.
Decide ugualmente di rendersi eleggibile al Draft NBA del 1998, viene scelto settimo in assoluto dai Sacramento Kings: ha 22 anni, senza uno straccio di educazione e con una fedina penale che inizia ad essere logora come un lenzuolo vecchio, fuma marijuana ma vede cose che noi umani fatichiamo a comprendere.
Sulle nocche delle mani compaiono le lettere W-H-I-T (mano destra) e E-B-O-Y (mano sinistra), sul petto si tatua un occhio, che lui definisce il suo terzo occhio, quello che gli permette di passare la palla in quel modo.
“Non mi piacciono i tatuaggi, se avesse bisogno di fare un colloquio di lavoro chi mai lo assumerebbe? Nessuno!” afferma papà Terry…beh, rivedrei la definizione, soprattutto se papà Terry domanda a qualcuno dalle parti dell’allora Arco Arena.
A Sacramento, Williams spende i primi tre anni di carriera NBA, dal 1998/1999 al 2000/2001. Sono forse i più belli, e anche quelli che tutti ricordano, complice anche una squadra che gioca un basket anarchico e poetico, senza lingua, senza playbook e senza ruoli, e che verrà ribattezzata “The Greatest Show on Court” dall’autorevole Sports Illustrated.
Chris Webber è il maestro cerimoniere, Predrag Stojakovic, Doug Christie e Vlade Divac completano il quadro, li guida lui, che diventerà definitivamente “White Chocolate” (perché è un bianco che gioca come un nero, con un gioco dolce e dannatamente buono, come il cioccolato), mentre coach Rick Adelman osserva compiaciuto.
L’Arco Arena è un pandemonio sera dopo sera, tutti amano il suo stile, la gente prova affetto sincero per lui, anche se non tifa per i Kings, in quel triennio la sua maglia numero 55 è una delle cinque più vendute di tutta la NBA.
La stagione 1999/2000 è quella nella quale toglie il velo da una delle giocate che lo renderanno (e tutt’ora lo rendono) celebre e ricordato.
Siamo all’All Star Game di Oakland, 11 Febbraio 2000, “Rookie Challenge”: i “Sophomore” (quelli al secondo anno, quindi la sua squadra) fanno partire un contropiede apparentemente banale, ma Williams sorprende tutti con un gioco di prestigio mai visto prima (ma che già aveva effettuato a DuPont): superata la linea da 3 punti si passa la palla dietro la schiena con la mano sinistra e lascia partire il passaggio col gomito destro, ovviamente senza guardare.
Ladies & Gentlemen ecco a voi “The Elbow Pass”, che il goffo Raef LaFrentz vanificherà sbagliando il canestro (anni dopo Vlade Divac ammetterà di essersi preso parecchie volte il pallone in faccia, in allenamento, perché non capiva da dove provenisse), ma non importa, è un’opera d’arte, una cosa fuori dal mondo che solo un genio può pensare (che io mi rivedo spesso su YouTube, e pur conoscendola a memoria, a distanza di 20 anni, ancora non riesco a capire come abbia fatto, ma solo a pensarla una cosa del genere!).
L’avventura a Sacramento si conclude al termine della stagione 2000/2001 e non benissimo: viene nuovamente sospeso per essere risultato positivo alla (solita) marijuana e successivamente multato (15.000 dollari) per frasi oscene e discriminatorie nei confronti di alcuni tifosi dei Golden State Warriors, durante una partita ad Oakland.
Nei Play Off del 2001 la perestroika nero/viola si stampa contro la pragmaticità devastante dei Lakers di Kobe e Shaq. Dopo un turno vittorioso contro i Suns, i Kings e Williams vengono liquidati 4-0 dai giallo/viola. È una serie che la dice lunga su quello che succede quando il “baloncesto bailado” incontra il deforestamento cestistico che sono i Lakers di quegli anni: gara 3 in particolare, giocata all’Arco Arena, decreta un -22 che gronda sangue e non necessita di ulteriori appelli. Il nostro uomo dalla Virginia in quella gara gioca 21 minuti, totalizzando 2 punti, 1/8 al tiro, 4 assist e 4 palloni regalati agli altri. Non abbastanza, decisamente non abbastanza.
Per la dirigenza è ora di cambiamenti e Williams viene ceduto ai Memphis Grizzlies (freschi di trasferimento da Vancouver) in cambio di Mike Bibby, un playmaker molto più sostanzioso e dotato di maggior sangue freddo.
Nella stagione 2001/2002 Williams fa registrare i suoi numeri migliori di sempre (14.8 punti e 8 assist di media), la vita in quel del Tennessee procede placida, sino a quando a coach Sidney Lowe succede, a metà della stagione 2003/2004, Hubie Brown, momentaneamente impiegato da un network nazionale come commentatore della stagione NBA. Brown, da cronista, non ha mai fatto mistero di non gradire la cioccolata bianca, definendolo un giocatore inconcludente che nessun allenatore con un minimo di obiettivi vorrebbe trovarsi attorno. Se la relazione con il coach non parte esattamente sotto gli astri più lucenti, ancora peggiore è il rapporto del playmaker con Brendan Brown, figlio dell’allenatore e nuovo assistant coach dei Grizzlies. Fra Brown Jr. e Williams gli alterchi sono frequenti in campo e fuori e costano a “Giasone” lunghe sedute in panchina durante il resto della stagione. Il coperchio viene definitivamente tolto dal pentolone il 7 Novembre 2004, in una trasferta a Dallas, quando davanti alle televisioni di mezzo paese Williams si mette ad urlare improperi contro Brown padre e figlio.
L’arrivo di Mike Fratello al posto di Brown, un altro con cui la conversazione non è di stampo Beckettsiano, segnano definitivamente la fine di “J-Will” nella città di Elvis e B.B. King, non prima di averci messo, ovviamente, del suo.
Dopo gara 4 dei Play Off del 2005 (che i Grizzlies straperdono 4-0 contro i Suns), Williams ha uno scontro piuttosto acceso con un giornalista, tanto da buttargli via la penna dalle mani e urlargli nelle orecchie mettendogli quasi le mani addosso. La NBA lo multa di 10.000 dollari, vive un momento molto delicato della sua carriera e, come spesso succede in queste situazioni, l’aiuto di un amico farebbe tutta la differenza del mondo. Se poi quell’amico si chiama Shaquille O’Neal la tua vita non può che avere una svolta pazzesca.
I due sono amici fin dal Draft del 1998, sono stati anche vicini di casa ad Orlando (quando Jason era al college) e hanno giocato assieme in alcuni tornei estivi.
In uno di questi Jason ha letteralmente distrutto Penny Hardaway, ai tempi compagno di squadra di O’Neal ai Magic, in un 1 vs 1 leggendario giocato davanti a centinaia di persone.
Shaq impazzisce completamente per Williams, già nei suoi anni ai Lakers aveva ripetutamente chiesto al front office di prendere Jason, e quando, nell’estate del 2004, “The Diesel” approda a Miami la prima cosa che fa è correre da Pat Riley e chiedergli di prendere Williams.
Il 2 Agosto 2005, al termine di una trade enorme (5 squadre e 11 giocatori, cercatevela su Wikipedia che non ve li scrivo tutti), Jason Williams è ufficialmente un giocatore dei Miami Heat.
Riley, nonostante la presenza di Gary Payton, lo schiera come playmaker titolare e lui ripaga completamente la fiducia, quella è la squadra di Shaq e Wade e lui accetta alla grande il ruolo di comprimario, di terzo o quarto violino, se non addirittura quinto.
Il suo gioco è cambiato: è più concreto, meno dedito alle magie (anche se le regalerà ugualmente), molto più adatto alle richieste di una squadra tanto da anello quanto assolutamente folle.
Se all’ombra delle palme la stagione regolare è assolutamente solida, J-Will si rivela fondamentale per il backcourt di Miami soprattutto nei playoff, aprendo Gara 1 della serie con Chicago con 17 punti e doppia cifra di assist e proseguendo con numeri di tutto rispetto sia nella serie contro Detroit che nella finale contro i Dallas Mavericks. Con il buon rendimento cresce il minutaggio e la fiducia sul campo fino alle Finali; dopo due partite a dir poco oscene giocate dagli Heat in casa di Dallas, il team floridiano inanella 4 vittorie consecutive, una rimonta storica e incredibile avviata dalla sontuosa “remuntada” in una Gara 3 che sembrava ormai persa. Per Miami è il primo titolo, per Williams il risultato più alto di una carriera, ottenuto dopo un anno di grande crescita.
I festeggiamenti a base di spumante, sorrisi e cuori gonfi di gioia per le strade che costeggiano Flamingo Park sono una candela mendace che ha il suo punto più buio proprio accanto alla fiamma. Le due stagioni (disastrose) che seguono sono di ricostruzione completa per la squadra di South Beach, un cantiere aperto per necessità di intenti di progetto e di età. Fuori dalla palestra intanto, la gravidanza della moglie di Williams, Denika Kisty (una ex atleta della squadra di Atletica dei Florida Gators), in attesa del terzo figlio, viene compromessa da una patologia seria e di cui i medici dello stato del Sud capiscono poco o nulla, costringendo la famiglia a lunghi mesi di ospedale e professionisti. In più lui ha problemi alle ginocchia che ne limitano il rendimento a quei livelli. Al termine dell’annata 2007/2008 Williams dichiara ufficialmente il ritiro dal basket.
Tornerà un anno dopo, nel 2009/2010, nella stessa Florida e nell’amata Orlando, dopo una vicenda travagliata di contratti con i Los Angeles Clippers, con i quali aveva firmato un contratto il 7 Agosto 2008 ma con cui non giocò neppure una partita, e con la Lega e i proprietari, che ne osteggiarono il rientro nell’NBA.
La stagione ad Orlando è tutto fuorché il meraviglioso canto del cigno delle fiabe, e la carriera NBA di uno dei giocatori, a mio modesto modo di vedere, più esaltanti ed eccitanti della storia di questo gioco termina in punta di piedi, come il tramonto incolore di un nuvoloso pomeriggio di fine autunno.
Williams ha contribuito, insieme a tanti altri esponenti del gioco dei primi anni 2000, ad una trasformazione dell’NBA e di tutto il basket da semplice pratica sportiva a manifestazione quasi artistica, perchè è fuori discussione che per la generazione nata fra il 1980 e il 2000, “White Chocolate” e tutto quel movimento di spettacolarizzazione della pallacanestro siano stati una miscela insostituibile di ispirazione e ammaliamento.
E’ qualcosa che chi non ha mai giocato non potrà mai capire, perchè la ragione pura e semplice non capisce come si possano barattare 10 palle perse con quell’unico, splendido passaggio dietro la testa in contropiede. E’ qualcosa che tutti noi, con fini più o meno miseri, abbiamo tentato di fare ai campetti, in allenamento o in campionato, mentre stuoli di allenatori ci imploravano di passarla a due mani dal petto e vedere due punti in più sul tabellone.
Se si intende il gioco come tale, anteponendo il mezzo al fine, il bello al buono, il divertimento al risultato, allora Jason Williams è stato uno dei più grandi interpreti di quest’arte.
Ora si diverte a giocare nei play ground o in qualche torneo evento con altri ex giocatori della NBA; lo stile è sempre quello, geniale, inconfondibile, sfrontato, che l’ha consegnato per sempre alla storia del gioco.
“Tutto nasce dalle ore che ho passato in palestra. Per ogni giocata che ho fatto mi sono esercitato centinaia e centinaia di volte in allenamento. Ogni giocata, eccetto l’Elbow Pass”.
Perché non ha mai smesso di essere quel ragazzino che passava tutto il suo tempo libero da solo, in quella palestra della DuPont High School, protetto da ogni cosa che potesse farlo stare male.
L’amore per il basket è sempre stato al centro della sua anima.
Nessun commento:
Posta un commento