lunedì 6 aprile 2020

Episode Twelve: Bad Boys Don’t Die


La pallacanestro ha un suo ruolo nevralgico, laddove tutto nasce, il “pollice” della mano, volendo citare il professor Aleksandar “Aza” Nikolic. Il ruolo del playmaker.
Quando io penso a questo ruolo, in riferimento alla NBA, nella mia mente appare subito la sagoma di John Stockton, che per me rappresenta alla perfezione l’epitome e la massima espressione classica di questo ruolo (nonché attuale miglior assistman nella storia della Lega con 15.806 controllate d’invito a sera).
Alle sue spalle la mia stessa mente pensa subito ad un ragazzo nato e cresciuto a Oakland, dove splende sempre il sole, dove anche in inverno le temperature sono primaverili.
E’ uno che, quando giocava, sembrava potesse anticipare il futuro, grazie a quella forma d’intelligenza comunemente chiamata “cinestesi”, che lo rendeva intuitivo e controintuitivo.
Vi devo (ri) citare Roy Batty nella scena cult di Blade Runner, perché vedeva cose che noi umani non potevamo neanche immaginare.
Quel ragazzo si chiama Jason Frederick Kidd.

Jason, che nasce il 23 Marzo 1973, è il frutto dell’amore tra Steve (afroamericano di fede battista) e Anne (americana di origini irlandesi, di formazione cattolica), una coppia interraziale e interreligiosa, un aspetto che aiuterà il ragazzo ad avere una posizione rispettosa e tollerante verso tutte le diversità, non solo razziali e religiose.
Il giovane Jason muove i primi passi nello sport attraverso il calcio, che lo attrae in quanto sport molto aggregativo, ma (fortunatamente aggiungerei), all’età di 8 anni, passa al basket.
Già alla Grass Valley Elementary School inizia a farsi notare per la sua innata capacità di passare la palla in tutti i modi, i ragazzi più grandi se lo contendono quando ci sono le partite.
Al contrario di tanti ragazzi non frequenta i playground: la sua estrazione sociale (viene da una famiglia benestante), quindi la possibilità di disporre di impianti di un certo genere, non lo spingono a cercare niente di diverso.
Tutto cambia quando Jason conosce un certo Gary Payton (diventeranno grandi amici, lo sono tutt’oggi): uno è il classico bianco ricco che viene dalle “Hills” soleggiate californiane, l’altro il classico nero proveniente dal ghetto, dove il rischio di imboccare la strada sbagliata è quotidiano, se non c’è qualcuno o qualcosa a distrarti. E questo qualcosa era il basket. Payton, che ha un anno in più, cerca di forgiare il più possibile Jason con quello che conosce di più, cioè il vero basket di strada. Quello duro come l’asfalto, fatto di “niente regole”, tanti falli e spesso risse. Si perché si sa, se il bianco ricco scende a giocare nei playground dei bassifondi sicuramente non avrà vita facile, soprattutto a 15 anni.
“The Glove” (come verrà chiamato Payton quando andrà a Seattle), che stravede per Kidd, dirà che “E’ da li che il suo gioco iniziò a cambiare. Iniziò a metterci molto più cuore e soprattutto coraggio”.
Nel 1987 Kidd si iscrive alla St. Joseph of Notre Dame High School, che diventa subito il suo regno incontrastato: vince ogni tipo di riconoscimento individuale più due titoli statali con la squadra, attira già frotte di scout e si paventa la possibilità di andare direttamente in NBA saltando il college.
College che però decide di frequentare, sorprendendo tutti, perché sceglie Berkeley grazie al lavoro di reclutamento di Todd Bozeman, che successivamente diventerà head coach dei “Golden Bears”.
Il primo anno (1992/1993) la squadra arriva fino alle “Sweet 16” (eliminano Duke, che ha vinto il torneo nel 1991 e nel 1992, al “Round of 32”), l’anno successivo si fermano al primo turno (“Round of 64”). La carriera collegiale di Kidd finisce qui (Cal University ritira la sua maglia numero 5), un biennio sensazionale (è Pac-10 Player of the Year in entrambi gli anni, oltre ad essere leader in assist e palle recuperate) se pensiamo al fatto che a quei tempi era dislessico. Aveva difficoltà linguistiche e di apprendimento, ed era seguito, a latere del suo percorso universitario, da una professoressa che lo seguiva personalmente.
Si rende eleggibile al Draft NBA del 1994, dove i Dallas Mavericks, detentori della seconda scelta assoluta, non se lo lasciano sfuggire.
Flashback: i mesi che precedono il Draft non sono per nulla semplici per il playmaker da Oakland. Viene arrestato per aver causato un tamponamento ed essere scappato dal luogo dell’incidente (multa di 1.000 dollari, 100 ore di servizi sociali e 2 anni di libertà vigilata), gli fanno causa due donne, una per averla schiaffeggiata durante una festa, l’altra di essere il padre di suo figlio.
I Mavs hanno aspettative molto alte e puntano tutto sulle loro “3 J”: Jason Kidd, Jim Jackson e Jamal Mashburn. Il nostro uomo è “Rookie of the Year” nel 1995 e, alla sua seconda stagione da professionista, piazza 9 triple doppie e guadagna 1.049.946 voti, assicurandosi il posto nell’All Star Game. 23 vittorie in più rispetto all’anno precedente però non bastano. Lo spogliatoio dei Mavs non trova la serenità. Brutte storie di droghe, donne e stanze d’albergo. Sì, perché gira voce che a dividere il nostro trio sia stata proprio una donna. Si parla della cantante Toni Braxton all’epoca fidanzata con Jim Jackson. Una sera, decisa a fare una sorpresa alla guardia dei Mavs, si presentò nell’albergo dove alloggiavano i giocatori. Ma si sa come sono gli alberghi. Piani tutti uguali, corridoi tutti uguali, porte tutte uguali…E’ facile sbagliarsi. Come è facile confondere una guardia con un playmaker. O un ragazzo bianco con gli occhi verdi alto 190 cm con uno nero di due metri con gli occhi neri. La storia finì con uno spogliatoio e un cuore spezzati a metà.
Durante la stagione 1996/1997 Kidd viene ceduto ai Phoenix Suns, dove pensa bene di infortunarsi alla prima partita e saltare così le successive 21. Ma torna giusto in tempo per portare la sua nuova squadra ai Play Off. La squadra, nella post season, non decolla mai (4 eliminazioni al primo turno e una al secondo turno), ma nel frattempo il talento e il gioco di Kidd fanno illuminare lo sguardo di tutti quelli che hanno avuto l’opportunità di vederlo giocare. Un regista che conosce già tutta la sequenza di inquadrature e le anticipa. Un attore non protagonista che lascia brillare la star. Creatività: capacità cognitiva della mente di creare e inventare. E lui creava. Eccome se creava.
Nel Maggio del 1999 il primo colpo durissimo: un giorno, nel cuore della notte, Jason riceve una telefonata che lo pietrifica. Suo padre Steve (61 anni) ha avuto un attacco di cuore ed è morto, l’aveva abbracciato appena tre giorni prima. Il dolore è molto forte ma la vicinanza di sua moglie Joumana (che ogni estate lavorava assieme a lui per fargli migliorare il suo jump shot, non è una barzelletta) e del figlio T. J. lo aiutano, tanto da non impedirgli di rispondere alla convocazione di Usa Team al Fiba Americas Championship vinto in carrozza, cui farà seguito l’oro olimpico a Sydney l’anno successivo.
Tutto sembra tornare in carreggiata, ma è qui che Jason conosce i suoi demoni più oscuri: nel Gennaio del 2001 viene arrestato per aver percosso, durante una discussione (pare per motivi di gelosia), sua moglie Joumana. La notizia fa il giro degli States e lo sbatte in prima pagina: 6 mesi di corso per la gestione della rabbia.
Il rapporto con la città è ormai incrinato, e si chiude del tutto il 28 Giugno 2001, quando i Suns lo cedono agli allora New Jersey Nets in cambio di Stephon Marbury. I Nets, una delle squadre più perdenti della Lega (26-56 il record in quella stagione), è la più grande sfida della sua carriera o l’esilio definitivo del suo talento?
L’entusiasmo non è proprio alle stelle (“se non verrò scambiato prima del termine del contratto (2003 n.d.r.) questa per me sarà solo una parentesi di due anni dopo la quale tornerò sulla West Coast”), anche perché la squadra non sembra essere entusiasmante.
Superato lo scetticismo iniziale, Jason si cala perfettamente nella realtà, tenendo addirittura un discorso da “caudillo” sudamericano il primo giorno di training camp: “le 26 vittorie dell’anno scorso dimenticatevele. Non solo diventeremo una squadra vincente ma andremo ai Play Off”.
Alle parole seguono i fatti, quel gruppo di apparenti scappati di casa lo segue, pendono completamente dalle sue labbra, giocano una pallacanestro frizzante, e al volante c’è lui, che illumina con giocate da visionario e assist per tutti, tra i quali quello che viene ribattezzato “The Bowling Pass” (il mio preferito), ovvero la palla che viene schiacciata a terra, sul filo del parquet, come se fosse un lancio che si fa al bowling, magnifico!
In quel periodo, oltre a giocare la miglior pallacanestro della sua carriera (non si capisce come, nel 2001/2002, non abbia vinto il premio di MVP della stagione, con tutto il rispetto per Tim Duncan), anche la sua vita privata va a gonfie vele, soprattutto il rapporto con Joumana, che omaggia con un bacio prima di ogni tiro libero. La promessa non solo è mantenuta, ma anche allargata, visto che i Nets non solo arrivano ai Play Off, ma diventano addirittura una “contender”.
Eliminano Pacers, Hornets (leggendaria la sua prestazione in gara 4, giocata nonostante l’occhio destro gonfio quasi ad oscurargli la visuale, 24 punti, 11 rimbalzi e 8 assist, con un occhio solo, di che parliamo?) e Celtics, per poi arrendersi, alle Finals, contro i Lakers, che sono troppo forti per tutti.
L’anno dopo si confermano a quei livelli, tornando nuovamente alle Finals (4-2 ai Bucks al primo turno e doppio “sweep” ai Celtics e ai Pistons), dove lo scontro è con i San Antonio Spurs, che li battono in 6 partite.
Kidd, che è in scadenza di contratto, è deluso, ha 30 anni e sente che è arrivato il momento di fare delle scelte adatte per lui e per la sua famiglia (che intanto si è allargata con l’arrivo dei gemelli Miah e Jazelle). Vola proprio a San Antonio, sembra ormai fatta per il suo passaggio agli Spurs campioni in carica, ma alla fine decide di rinnovare coi Nets (6 anni a 100 milioni di dollari complessivi, il più ricco contratto della sua carriera).
Nel 2003/2004, causa alcuni problemi al ginocchio, salta 25 partite, la squadra riesce comunque a qualificarsi ai Play Off, dove andranno fuori, in semifinale di Conference, contro i Detroit Pistons futuri campioni (in 7 partite, da segnalare una gara 5 indimenticabile e vinta dai Nets dopo ben tre over times, con “J-Kidd” che griffa una memorabile tripla doppia da 22 punti, 11 assist e 10 rimbalzi, con un ginocchio dolorante).
Nelle tre stagioni successive i Play Off ormai sono una certezza, così come la fine dei sogni massimo al secondo turno. Nel 2007 divorzia da sua moglie Joumana: il rapporto tra i due era arrivato al capolinea a causa della paranoica gelosia di Jason, spesso, nuovamente, protagonista di atteggiamenti violenti nei confronti della moglie. I demoni del passato che ritornano e, come nel 2001, coincidono con una trade, perché la clessidra del tempo è puntata sul 13 Febbraio 2008.
Sta per salutare i Nets, non prima di regalarci due perle: una contro i Sacramento Kings (è in contropiede e punta forte il centro dell’area, rallenta ed effettua una finta di consegnato, con la palla che sparisce e poi riappare nelle mani di Richard Jefferson che va ad appoggiare in lay up, un mago!), l’altra è contro i Golden State Warriors (contropiede 3 vs 1, all’altezza della lunetta si fa passare la palla dietro la schiena e, senza fermare il movimento, lascia andare un passaggio “no look” per Vince Carter che inchioda la schiacciata, con Monta Ellis che sta ancora cercando di capire cosa sia successo).
Dicevamo della clessidra, perché il 13 Febbraio del 2008 termina la meravigliosa favola dei New Jersey Nets, che lo cedono ai Dallas Mavericks, dove torna dopo 11 anni.
A quasi 35 anni arriva l’ultimo treno della carriera per andare a caccia del titolo NBA, il suo vero e unico obiettivo da quando è diventato professionista.
La seconda avventura ai Mavs viene anticipata dalle Olimpiadi di Pechino, dove Jason, col “Redeem Team” (bisogna vendicare il fallimento di Atene 2004 e dei Mondiali del 2006), vince la sua seconda medaglia d’oro olimpica, chiudendo la sua esperienza con Usa Team (che conta anche tre ori ai Fiba Americas Championship).
A Dallas arriva, in panchina, Rick Carlisle, col quale il rapporto è ottimo fin da subito, nel 2008/2009 la squadra arriva 6° in Regular Season e ai Play Off piazza l’upset eliminando gli Spurs al primo turno, per poi uscire il turno successivo contro i Denver Nuggets.
Nell’estate del 2009 il contratto di Jason scade, Carlisle preme per la sua conferma e arriva il rinnovo triennale. Nel 2009/2010 i Mavs giocano con grande autorità, Kidd, a 37 anni suonati, viaggia ad oltre 9 assist a partita, la squadra chiude seconda ad Ovest, ci sono grandi aspettative, ma l’avventura in post season termina, incredibilmente, al primo turno, per mano dei San Antonio Spurs, che gli rendono l’upset dell’anno prima.
Il seme è piantato, nel 2010/2011 la Regular Season si chiude al terzo posto (oltre 8 assist di media per l’uomo da Oakland), al primo turno dei Play Off 4-2 ai Blazers, in semifinale di Conference ci sono i Lakers campioni in carica, che finiscono asfaltati sotto i colpi di un perentorio 4-0 (il primo subìto da Phil Jackson in carriera), con “J-Kidd” che ci regala due diapositive che ci fanno capire tante cose: gli 11 assist che “smazza” in gara 1 e la difesa su Kobe Bryant in gara 3, annullandolo letteralmente.
In Final Conference ci sono gli Oklahoma City Thunder del trio Westbrook-Harden-Durant, liquidati 4-1 (per non perdere le buone abitudini la difesa di Kidd, su giocatori come Westbrook e Durant, più giovani e forti fisicamente di lui, è stata pazzesca, ancora una volta mentalità ed esperienza hanno fatto la differenza).
In finale c’è l’appuntamento con la storia, perché l’avversario sono quei Miami Heat che, 5 anni prima, con una rocambolesca e clamorosa rimonta, hanno beffato proprio i Mavs.
2-1 immediato per gli Heat, si arriva a gara 5 sul 2-2, che i Mavs vincono grazie a un Kidd sensazionale direttore d’orchestra (13 punti, 6 assist e 3 recuperi, a 38 anni). Gara 6 completa il quadro, perché i Mavs vincono il titolo, il primo della loro storia, così come Kidd, che riesce a mettersi quell’anello, al dito, tanto desiderato.
L’anno successivo è l’ultimo in Texas (intanto si è risposato e ha avuto due figli), pensa al ritiro ma poi accetta la corte dei New York Knicks, coi quali firma un triennale il 12 Luglio 2012.
Tre giorni dopo la sua presentazione viene arrestato per guida in stato di ebbrezza: con la sua auto è andato addosso a un palo del telefono per poi finire dentro al bosco non lontano da casa sua.
Il lupo perde il pelo ma non il vizio, nonostante siamo alla soglia dei 40 anni.
La squadra supera le 50 vittorie in stagione (non accadeva dal 2000) e accede ai Play Off, dove elimina i Celtics al primo turno per poi venire eliminata, dai Pacers, in semifinale di Conference.
Kidd, che non ha segnato un canestro dal campo in nessuna delle partite in post season, è sfinito, e decide che il momento è arrivato: annuncia il suo ritiro il 3 Giugno 2013, chiudendo la sua carriera da giocatore che ci regala tre dati statistici significativi. 12.091 assist (secondo di sempre, alle spalle di Stockton), 2.684 recuperi (secondo di sempre, (ri) alle spalle di Stockton) e 108 triple doppie (quarto di sempre, dietro a Robertson, Westbrook e “Magic”).
Nove giorni dopo i Brooklyn Nets annunciano il nuovo head coach per la stagione 2013/2014: il suo nome è Jason Kidd, chiamato, nuovamente, anche se con veste diversa, a risollevare le sorti di quella squadra che, 12 anni prima, aveva infiammato col suo discorso il primo giorno di raduno.
Non voglio mai tradire il gioco. Lo amo troppo per farlo. E amo giocare duro. Non mi interessa se devo sacrificare tutto il mio corpo per esso. E prima di aver finito, spero di portare nuovamente l’arte del passaggio sotto i riflettori e dimostrare che si può fare molto di più per vincere le partite che solamente segnare dei punti.”
E’ mai esistito qualcuno capace di trasformare da solo una squadra mediocre in una contender per il titolo? Si, è esistito, e si chiama Jason Kidd.
Ritmo, visione, magia, eccitazione. 
Quattro concetti distinti riassunti in un unico, meraviglioso, interprete.

 



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